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Questo libro tratta d'alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di be' risposi e di belle valentie e doni, secondo che per lo tempo passato hanno fatto molti valenti uomini.
Quando lo Nostro Signore Gesù Cristo parlava umanamente con noi, in fra l'altre sue parole ne disse che dell'abondanza del cuore parla la lingua. Voi c'avete i cuori gentili e nobili in fra li altri, acconciate le vostre menti e le vostre parole nel piacere di Dio, parlando, onorando e temendo e laudando quel Signore Nostro, che n'amò prima che Elli ne criasse e prima che noi medesimi ci amassimo. E se in alcuna parte, non dispiacendo a lui, si può parlare per rallegrare il corpo e sovenire e sostentare, facciasi con più onestade e con più cortesia che fare si puote.
Et acciò che li nobili e ' gentili sono nel parlare e nell'opere molte volte quasi com'uno specchio appo i minori — acciò che il loro parlare è più gradito però che esce di più dilicato stormento —, facciamo qui memoria d'alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi e di belle valentie, di belli donari e di belli amori, secondo che per lo tempo passato hanno fatto già molti. E chi avrà cuore nobile et intelligenzia sottile, si li potrà simigliare per lo tempo che verrà per innanzi et argomentare e dire e raccontare (in quelle parti dove avranno luogo), a prode et a piacere di coloro che non sanno e disiderano di sapere.
E se i fiori che proporremo fossero mischiati intra molte altre parole, non vi dispiaccia: ché 'l nero è ornamento dell'oro, e per un frutto nobile e dilicato piace talora tutto un orto, e per pochi belli fiori tutto un giardino. Non gravi a' leggitori che sono stati molti che sono vivuti grande lunghezza di tempo et in vita loro hanno appena tanto: un bel parlare, overo una cosa, da mettere in conto fra i buoni.
‘Della ricca ambasceria la quale fece lo Presto Giovanni al nobile imperadore Federigo’
Presto Giovanni, nobilissimo signore indiano, mandoe ricca e nobile ambasceria al nobile e potente imperadore Federigo, a colui che veramente fu specchio del mondo in parlare et in costumi et amò molto dilicato parlare et istudiò in dare savi risponsi. La forma e la intenzione di quella ambasceria fu solo in due cose, per volere al postutto provare se lo 'mperadore fosse savio in parlare et in opere.
Mandolli per li detti ambasciadori tre pietre nobilissime e disse loro:
«Donatele allo 'mperadore e diteli dalla parte mia che vi dica qual'è la migliore cosa del mondo; e le sue parole e risposte serberete, et aviserete la corte sua e ' costumi di quella, e quello che inverrete raccontarete a me, sanza niuna mancanza».
Fuoro allo 'mperadore, dove erano mandati per lo loro signore, salutarlo sì come si convenia per la parte della sua maestade e per la parte dello loro soprascritto signore. Donarli le sopra dette pietre. Quelli le prese e non domandò di loro virtude: fecele riporre, e lodolle molto di grande bellezza.
Li ambasciadori fecero la dimanda loro, e videro li costumi e la corte; poi, dopo pochi giorni, adomandaro commiato.
Lo 'mperadore diede loro risposta e disse:
«Ditemi al signore vostro che la migliore cosa di questo mondo si è misura».
Andar li ambasciadori e rinunziaro e raccontaro ciò ch'aveano veduto et udito, lodando molto la corte dello 'mperadore ornata di bellissimi costumi, e 'l modo de' suoi cavalieri.
Il Presto Giovanni, udendo ciò che raccontaro li suoi ambasciadori, lodò lo 'mperadore e disse ch'era molto savio in parole, ma non in fatti, acciò che non avea domandato della virtù di cosìe care pietre. Rimandolli ambasciadori et offerseli, se li piacesse, che 'l farebbe siniscalco della sua corte: e feceli contare le sue ricchezze e le diverse generazioni de' sudditi suoi et il modo del suo paese.
Dopo non gran tempo, pensando il Presto Giovanni che le pietre c'avea donate allo 'mperadore avevano perduta loro virtude da poi che non erano per lo 'mperadore conosciute, tolse uno suo carissimo lapidaro e mandollo celatamente nella corte dello 'mperadore e disse:
«Al postutto metti lo 'ngegno tuo che tu quelle pietre mi rechi. Per niuno tesoro rimanga».
Lo lapidaro si mosse, guernito di molte pietre di gran bellezza, e cominciò, presso alla corte, a legare sue pietre. Li baroni veniano, e li cavalieri, e vedevano di suo mistiero. L'uomo era molto savio: quando vedeva alcuno c'avesse luogo in corte, non vendeva, ma donava: e donò anella molte, tanto che la lode di lui andò dinanzi allo 'mperadore: lo quale mandò per lui e mostrogli sue pietre. Lodolle, ma non di gran vertude. Domandò se avesse più care pietre. Allora lo 'mperadore fece venire le tre pietre preziose ch'elli disiderava di vedere.
Allora il lapidaro si rallegrò e prese l'una pietra e miselasi in mano e disse così:
«Questa pietra, messere, vale la migliore città che voi avete».
E poi prese l'altra e disse:
«Questa, messere, vale la migliore provincia che voi avete».
E poi prese la terza e disse:
«Messere, questa vale più che tutto lo 'mperio»: e strinse il pugno con le soprascritte pietre. La vertude dell'una il celò che no 'l potero vedere; e' discese giù per le gradora, e tornò al suo signore Presto Giovanni, e presentolli le pietre con grande allegrezza.
‘D'un savio greco, c'uno re teneva in pregione, come giudicò d'uno destriere’
Nelle parti di Grecia ebbe un signore che portava corona di re et avea grande reame et avea nome Filippo; e per alcuno misfatto tenea un savio greco in pregione, il quale era di tanta sapienzia, ch'ê·llo intelletto suo passava oltra le stelle.
Avenne un giorno che a questo signore fu appresentato, delle parti di Spagna, un nobile destriere di gran podere e di bella guisa. Adomandò lo signore mariscalchi per sapere la bontà del destriere; fu·li detto che in sua pregione avea lo sovrano maestro intendente di tutte le cose.
Fece menare il destriere al campo e fece trarre il greco di pregione e disseli:
«Maestro, avisa questo destriere, ché m'è fatto conto che tu se' molto saputo».
Il greco avisa lo cavallo e disse:
«Messere, elli è di bella guisa, ma cotanto vi dico: che 'l cavallo è nutricato a latte d'asina».
Lo re mandò in Ispagna ad invenire come fu nodrito, et invennero che la destriera era morta et il puledro fu notricato a latte d'asina. Ciò tenne il re a grande maraviglia, et ordinò che li fosse dato un mezzo pane il dì alle spese della corte.
Un altro giorno avenne che lo re adunoe sue pietre preziose e rimandoe per questo prigione greco e disse:
«Maestro, tu se' di grande savere, e credo che di tutte le cose t'intendi. Dimmi, se t'intendi delle virtù delle pietre: qual ti sembra di più ricca valuta?».
Il greco avisò e disse:
«Messere, voi quale avete più cara?».
Lo re prese una pietra intra l'altre molto bella e disse:
«Maestro, questa mi sembra più bella e di maggiore valuta».
Il greco la prese e miselasi in pugno e strinse, e puoselasi all'orecchie, e poi disse:
«Messere, qui ha un vermine».
Lo re mandò per maestri e fecela spezzare, e trovaro nella detta pietra un vermine. Allora lodò il greco d'oltremirabile senno, et istabilìo che un pane intero li fosse dato per giorno, alle spese di sua corte.
Poi, dopo non molti giorni, lo re si pensò di non essere legittimo re. Mandò per questo greco et ebbelo in luogo sacreto e cominciò a parlare e disse:
«Maestro, di grande scienzia ti credo, e manifestamente l'hoe veduto nelle cose in ch'io t'ho domandato. Io voglio che tu mi dichi cui figliuolo io fui».
Il greco rispuose:
«Messere, che domanda mi fate voi? Voi sapete bene che foste figliuolo del cotale padre».
E lo re rispuose:
«Non mi rispondere a grado: dimmi sicuramente il vero e, se no 'l mi dirai, io ti farò di villana morte morire».
Allora il greco rispuose:
«Messere, io vi dico che voi foste figliuolo d'uno pistore».
E lo re disse:
«Vogliolo sapere da mia madre»; e mandò per la madre, e constrinsela con minacce feroci. La madre confessò la veritade. Allora il re si chiuse in una camera con questo greco e disse:
«Maestro mio, grande prova ho veduto della tua sapienzia. Pregoti che mi dichi come queste cose tu le sai».
Allora il greco rispose:
«Messere, io lo vi dirò. Il cavallo conobbi a latte d'asina esser nodrito per propio senno naturale, acciò ch'io vidi che avea li orecchi chinati, e ciò non è propia natura di cavallo. Il verme nella pietra conobbi però che le pietre naturalmente sono fredde, et io la trovai calda. Calda non puote essere naturalmente se non per animale lo quale abbia vita».
«E me come conoscesti essere figliuolo di pistore?».
Il greco rispuose:
«Messere, quando io vi dissi del cavallo cosa così maravigliosa, voi mi stabiliste dono d'un mezzo pane per dì; e poi, quando della pietra vi dissi, voi mi stabiliste un pane intero. Pensate che allora m'avidi cui figliuolo voi foste: ché se voi foste suto figliuolo di re, vi sarebbe paruto poco di donarmi una nobile città, onde a vostra natura parve assai di meritarmi di pane, sì come vostro padre facea».
Allora il re riconobbe la viltà sua e trasselo di pregione e donolli molto nobilemente.
‘Come un giullare si compianse dinanzi ad Alexandro d'un cavaliere, al quale elli avea donato per intenzione che 'l cavaliere li donerebbe ciò che Alexandro li donasse’
Stando Alexandro alla città di Giadre con moltitudine di gente ad assedio, un nobile cavaliere era fuggito di pregione; et essendo poveramente ad arnese, misesi ad andare ad Alexandro, che donava larghissimamente sopra gli altri signori. Andando per lo cammino, trovò uno uomo di corte nobilemente ad arnese. Domandollo dove andava. Lo cavaliere rispuose:
«Io vado ad Alexandro che mi doni, acciò ch'io possa tornare in mia contrada onoratamente».
Allora il giullare rispose e disse:
«Che vuoli tu ch'io ti doni — e tu mi dona ciò che Alexandro ti donarà?».
Lo cavaliere rispuose:
«Donami cavallo da cavalcare e somiere e robbe e dispendio condonevile a·rritornare in mia terra».
Il giullare lile donò, et in concordia cavalcaro ad Alexandro, lo quale aspramente avea combattuto la città di Giadres, era partito dalla battaglia, e faceasi sotto un padiglione disarmare.
Lo cavaliere e lo giullare si trassero avanti; lo cavaliere fece la domanda sua ad Alexandro umile e dolcemente. Alexandro non li fece motto, né·lli fece rispondere. Lo cavaliere si partì dal giullare, e misesi per lo cammino a ritornare in sua terra.
Poco dilungato lo cavaliere, li nobili cittadini di Giadres recaro le chiavi della città ad Alexandro, con pieno mandato d'ubbidire a·llui siccome a·llor signore. Alexandro allora si volse inverso i suoi baroni e disse:
«Dov'è chi mi domandava ch'io li donasse?»
Allora fu tramesso per lo cavaliere ch'addomandava il dono. Lo cavaliere venne, et Alexandro parlò e disse:
«Prendi, nobile cavaliere, le chiavi della nobile città di Giadres, ché la ti dono volentieri».
Lo cavaliere rispuose:
«Messere, non mi donare cittade: priegoti che mi doni oro o argento o robbe, come sia tuo piacero».
Allora Alexandro sorrise, e comandò che·lli fossero dati duemila marchi d'ariento: — e questo si scrisse per lo minore dono che Alexandro donò mai.
Lo cavaliere prese i marchi e donolli al giullare. Il giullare fu dinanzi ad Alexandro, e con grande stanzia addomandava che·lli facesse ragione; e fece tanto, che fece restare lo cavaliere. E la domanda sua si era di cotale maniera, dinanzi ad Alexandro:
«Messere, io trovai costui in cammino; domanda'lo ove andava e perché. Dissemi che ad Alexandro andava perché li donasse. Con lui feci patto: dona'li, et elli mi promise di donare ciò che Alexandro li donasse: onde elli hae rotto il patto, c'ha rifiutata la nobile città di Giadres et ha preso li marchi: perch'io dinanzi alla vostra signoria addomando che mi facciate ragione e sodisfare quanto vale più la città che ' marchi».
Allora il cavaliere parlò; e primamente confessò i patti, poi disse:
«Ragionevole signore, que' che·mmi domanda è giucolare, et in cuore di giullare non puote discendere signoria di cittade. Il suo pensiero fu d'argento e d'oro, e la sua intenzione fu tale, et io ho pienamente fornita la sua intenzione: onde la tua signoria proveggia nella mia diliveranza, secondo che piace al tuo savio consiglio».
Alexandro e ' suoi baroni prosciolsero il cavaliere, e comendarlo di grande sapienzia.
‘Come uno re commise una risposta a un suo giovane figliuolo,la quale dovea fare ad ambasciadori di Grecia’
Uno re fu nelle parti di Egitto, lo quale avea un suo figliuolo primogenito, lo quale dovea portare la corona del reame dopo lui. Questo suo padre dalla fantilitade sì cominciò e fecelo nodrire intra savi uomini di tempo, sì che anni avea quindici e giamai non avea veduto niuna fanciullezza.
Un giorno avenne che·llo padre li commise una risposta ad ambasciadori di Grecia. Il giovane, stando sull'aringheria per rispondere alli ambasciadori — il tempo era turbato e piovea —, volse li occhi per una finestra del palagio e vide altri giovani che accoglievano l'acqua piovana e facevano peschiera e mulina di paglia. Il giovane, vedendo ciò, lasciò stare l'aringheria e gittossi subitamente giù per le scale del palagio et andò alli altri giovani che stavano a ricevere l'acqua piovana e cominciò a fare le mulina e le bambolitadi. Baroni e cavalieri lo seguirono assai e rimenarlo al palazzo; chiusero la finestra, e 'l giovane diede sufficiente risposta.
Dopo il consiglio si partìo la gente. Lo padre adunò filosofi e maestri di grande scienzia; propuose il presente fatto. Alcuno de' savi riputava movimento d'omori; alcuno, fievolezza d'animo; chi dicea infirmità di celabro: chi dicea una e chi un'altra, secondo le diversità di loro scienzie. Uno filosofo disse:
«Ditemi come lo giovane è stato nodrito».
Fu·lli contato come nodrito era stato con savi e con uomini di tempo, lungo da ogni fanciullezza.
Allora lo savio rispose:
«Non vi maravigliate se·lla natura domanda ciò ch'ella ha perduto. Ragionevole cosa è bamboleggiare in giovanezza, et in vecchiezza pensare».
‘Come a David re venne in pensiero di volere sapere quanti fossero i sudditi suoi’
Davit re stando per la bontà di Dio, che di pecoraio l'avea fatto signore, li venne un giorno in pensiero di volere al postutto sapere quanti fossero per numero i sudditi suoi: e ciò fu atto di vana gloria, onde molto ne dispiacque a Dio: e mandolli l'angelo suo, e feceli così dire:
«Davit, tu ha' peccato. Così ti manda a dire lo Signore tuo: o vuoli tu stare tre anni infermo o tre mesi nelle mani de' nemici tuoi, o vuogli stare al giudicio delle mani del tuo Signore?».
Davit rispuose:
«Nelle mani del mio Signore mi metto: faccia di me ciò che li piace».
Or che fece Iddio? Punillo secondo la colpa, ché quasi la maggior parte del populo suo li tolse per morte: acciò ch'elli si vanagloriò nel grande novero, così li scemò e appicciolò il novero.
Un giorno avenne che, cavalcando, Davit vide l'angelo di Dio con una spada ignuda, c'andava uccidendo il popolo; e, comunque elli volle colpire uno, e Davit smontoe subitamente e disse:
«Messere, mercé: non uccidete l'innocenti, ma uccidi me, cui è la colpa».
Allora, per la dibonarità di questa parola, Dio perdonò al popolo, e rimase l'uccisione.
‘Qui divisa come l'angelo di Dio parlò a Salamonee li disse che torrebbe il reame al suo figliuolo per li suoi peccati’
Leggesi di Salamone che fece un altro dispiacere a Dio, onde cadde in sentenzia di perdere lo reame suo. L'angelo li parlò e disse così:
«Salamone, per la tua colpa tu se' degno di perdere lo reame; ma così ti manda lo Nostro Signore a dire: che, per li meriti della bontà di tuo padre, elli no 'l ti torrà al tuo tempo; ma, per la colpa tua, egli lo torrà al figliuolto. E così dimostra i guidardoni del padre meritati nel figliuolo, e·lle colpe del padre pulite nel figliuolo».
Nota che Salamone sapientissimo studiosamente lavorò sotto 'l sole: con ingegno di sua grandissima sapienzia fece grandissimo e nobile regno. Poi che l'ebbe fatto, providesi di non volere che 'l possedessero aliene rede, cioè strane, fuori di suo legnaggio; et a cioè tolse molte mogli e molte amiche, per avere assai rede. E Dio provide, quelli ch'è sommo dispensatore, sì che tra tutte le mogli e l'amiche, ch'erano tante, non ebbe se non uno figliuolo.
E allora Salamone si provide di sottoporre ed ordinare sì lo reame sotto questo suo figliuolo (lo quale Roboam avea nome), ch'elli regnasse dopo lui certamente: ch'el fece dalla gioventudine infino alla senettute ordinare la vita al figliuolo con molti amaestramenti e con molti nodrimenti, e più fece: che tesoro li ammassoe grandissimo, e miselo in luogo sicuro; e più fece: che in concordia fu con tutti li signori che marcavano con lui, et in pace ordinò e dispuose sanza contenzione tutti i suoi baroni; e più fece: che lo dottrinò del corso delle stelle et insegnolli avere signoria sopra i domoni. Tutte queste cose fece perché Roboam regnasse dopo lui.
Quando Salamone fue morto, Roboam prese suo consiglio di gente vecchia e savia. Propose e domandò consiglio in che guisa riformasse lo popolo suo.
Li vecchi l'insegnarono:
«Ragunerai il populo tuo, e con dolci parole parlerai, e dirai che tu li ami siccome te medesimo e ch'elli sono la corona tua e che, se tuo padre fu loro aspro, che tu sarai loro umile e benigno e, dov'egli li avesse faticati, che tu li soverrai in grande riposo; e se in fare il tempio fuoro gravati, tu se' quelli che li agevolerai».
Queste parole l'insegnaro i savi vecchi del regno.
Partissi Roboam et adunò uno consiglio di giovani e fece loro simigliante proposta; e quelli li adomandaro:
«Quelli con cui prima ti consigliasti, come ti consigliaro?».
E quelli il raccontò loro a motto a motto. Allora li giovani li dissero:
«Elli t'ingannano, perciò che i regni non si tengono per parole, anzi per prodezza e per franchezza: onde, se tu dirai loro dolci parole, parrà che tu teme il popolo: ond'esso ti soggiogherà e non ti terrà per signore, e non ti ubidiranno. Ma fae per nostro senno: noi siamo tutti tuoi servi, e 'l signore può fare de' servi quello che li piace: onde di' loro con vigore e con ardire ch'elli son tutti tuoi servi e, chi non ti ubidirà, che tu il pulirai secondo la tua aspra legge; e, se Salamone li gravoe in fare lo tempio, e tu li graverai se ti verrà in piacere. Il popolo non t'avrae per fanciullo, tutti ti temeranno, e così terrai la corona e lo reame».
Lo stoltissimo Roboam si tenne al giovane consiglio: raunò il popolo e disse parole feroci.
Il popolo s'adirò, i baroni si turbaro, fecero posture e leghe; giuraro insieme certi baroni, sì che, in trentaquattro dì dopo la morte di Salamone, perdé delle dodici parti le diece di tutto il reame suo.
‘Qui divisa come un figliuolo d'uno re donò scalteritamente a uno re di Siria scacciato’
Uno signore di Grecia, lo quale possedea grandissimo reame et avea nome Aulix, avea uno suo giovane figliuolo, il quale facea nodrire et insegnarli le sette liberali arti, e faceali insegnare vita morale, cioè di be' costumi.
Un giorno tolse questo re molto oro e diello a questo suo figliuolo e disse:
«Dispendilo come ti piace»; e comandò a' baroni che neuno non li insegnasse spendere questo oro, ma sollicitamente avisassero il suo portamento e 'l modo che e' ne tenesse.
I baroni seguitando questo giovane, un giorno stavano con lui alle finestre del palazzo. Il giovane stava pensoso. Vide passare per lo cammino gente che parea assai nobile secondo li arnesi e secondo le persone.
Il camino correa a piè del palagio. Comandò questo giovane che fossero tutte quelle genti menate dinanzi da·llui. Fue ubbidita la sua volontade: vennero i viandanti dinanzi dal giovane e da' suoi baroni. L'uno ch'avea lo cuore più ardito e la fronte più allegra si fece avanti e disse:
«Messere, che ne domandi?».
Il giovane rispuose:
«Domandoti onde se' e di che condizione».
E que' rispose:
«Messere, io sono d'Italia, e mercatante sono molto ricco; e quella ricchezza ch'i' ho no·ll'ho di mio patrimonio, ma tutta l'hoe guadagnata di mia sollicitudine».
E 'l giovane domandò il seguente, lo quale era di nobile fazione e stava con peritosa faccia, e disseli che si facesse avanti, acciò che stava più indietro che l'altro e non sì arditamente. Quelli disse:
«Messere, che mi domandi?».
Il giovane rispuose:
«Domandoti donde se' e di che condizione».
Et elli rispuose:
«Io sono di Soria e sono re; et ho sì saputo fare, che li sudditi miei m'hanno cacciato».
Allora il giovane prese tutto l'oro e diello a questo scacciato re.
Il grido andò per lo palagio. I cavalieri e li baroni e l'altra gente tutta, di boce in boce, diciano:
«L'oro è dispenso!».
Chi dicea e chi domandava il come. Tutta la corte sonava solo di questo oro. Al padre furono racontate tutte queste novelle, e come il suo figliuolo avea dispensato tutto quello oro, e tutte le domande e tutte le risposte li furono raccontate a motto a motto.
Il re incominciò a parlare al figliuolo, udente molti baroni, e disse:
«Come dispensasti? Che pensiero ti mosse? Qual ragione ci mostri, che a colui che per sua bontà aveva guadagnato non desti, e a colui che avea perduto per sua colpa e follia, tutto donasti?».
E 'l giovane savio rispuose:
«Messere, non donai a chi non mi insegnoe; né a neuno donai, ma ciò ch'io feci fu guiderdone, e non dono. Il mercatante non mi insegnò neente: no·lli era neente tenuto; ma quelli ch'era di mia condizione, figliuolo di re, e che portava corona di re, il quale per la sua follia avea sì fatto che ' sudditi suoi l'hanno cacciato, m'insegnò tanto che ' sudditi miei non cacceranno me: onde picciolo guiderdone diedi a·llui di così ricco insegnamento».
Udita la sentenzia del giovane, il padre e·lli suoi baroni il commendaro di grande sapienzia, dicendo che grande speranza ricevea della sua giovinezza, che negli anni compiuti sia di grande valore.
Le lettere corsero per li paesi a' signori et a' baroni, e furonne grandi disputazioni tra ' savi.
‘Qui si ditermina una nova quistione e sentenzia che fu data in Alexandria’
In Alexandria la quale è nelle parti di Romania (acciò che sono dodici Alexandrie, le quali Alexandro fece il marzo dinanzi che morisse), in quella Alexandria sono le rughe ove stanno i Saracini li quali fanno i mangiari a vendere: e cerca l'uomo la ruga per li piue netti mangiari e per li più dilicati, sì come l'uomo fra noi cerca de' drappi.
Un giorno di lunedì un cuoco saracino (lo quale avea nome Fabrat) stando alla fucina sua, un povero saracino venne alla cucina con uno pane in mano. Danaio non avea da comperare da costui: tenne il pane sopra il vasello, e ricevea il fummo che n'uscia e, innebriato il pane dell'olore che n'uscia, del mangiare, e quelli lo mordea, e così il consumò di mangiare, ricevendo il fumo e mordendolo.
Questo Fabrat non vendeo bene quella mattina; recolsi ad augura, et a noia prese questo povero saracino e disseli:
«Pagami di ciò che tu hai preso del mio».
Il povero dicea:
«Io non ho preso del tuo mangiare altro che fummo».
«Di ciò c'hai preso mi paga» dicea Fabrat.
Tanto fu la contesa che, per la nova quistione e rozza, non mai più avenuta, n'andaro le novelle al Soldano. Il Soldano per molta novissima cosa raunò ' savi e mandò per costoro. Formò la questione. I savi saracini cominciaro a sottigliare, e chi riputava il fummo non del cuoco, dicendo molte ragioni:
«Il fummo non si può ritenere, e torna ad alimento, e non ha sustanzia né propietade che sia utile: non dee pagare».
Altri diceano:
«Lo fummo era ancora congiunto col mangiare, ed era in costui signoria, et uscia e generavasi della sua propietade; e l'uomo sta per vendere, di suo mistiere; e chi ne prende è usanza che paghi. Se·lla sustanza è sottile, et ha poco, poco paghi».
Molte sentenzie v'ebbe. Finalmente un savio mandò consiglio e disse:
«Poi che quelli sta per vendere, di suo mistiere, et altri per comperare, tu, giusto signore, fa' che 'l facci giustamente pagare la sua derrata secondo la sua valuta. S'ê·lla sua cucina (ch'e' vende dando l'utile propietade di quella) suole prendere utile moneta, et ora c'ha venduto fummo (ch'è la parte sottile ch'esce della cucina), fae, signore, sonare una moneta, e giudica che 'l pagamento s'intenda fatto del suono ch'esce di quella».
E così giudicò il Soldano che fosse osservato.
‘Qui divisa d'una bella sentenza che diede lo Schiavo di Barid'uno borgese e d'uno pellegrino’
Uno borgese di Bari andò in romeaggio e lasciò trecento bisanti a un suo amico con queste condizioni e patti:
«Io andrò sì come a Dio piacerà; e s'io non rivenisse, dara'li per l'anima mia; e s'io rivengo a certo termine, quello che tu vorrai mi renderai, e li altri ti terrai».
Andò il pellegrino in suo romeaggio; rivenne al termine ordinato e radomandò i bisanti suoi.
L'amico rispuose:
«Conta il patto».
Lo romeo lo contò a punto.
«Ben dicesti» disse l'amico. «Te' 'diece bisanti ti voglio rendere; i dugentonovanta mi tengo».
Il pellegrino cominciò ad adirarsi dicendo:
«Che fede è questa? Tu mi tolli il mio falsamente».
E l'amico rispondea soavemente:
«Io non ti fo torto; e, s'io lo ti fo, siànne dinanzi alla Signoria».
Richiamo ne fue; lo Schiavo di Bari ne fu giudice. Udìo le parti; formò la quistione onde nacque questa sentenzia, e disse così a colui che ritenne i bisanti:
«Rendi ' dugentonovanta bisanti al pellegrino, e 'l pellegrino ne dea a te ' dieci che tu li hai renduti, però che 'l patto fu tale: »ciò che tu vorrai mi renderai«. Onde i dugentonovanta bisanti ne vuoli, rendili; e i diece, che tu non volei, prendi».
‘Qui conta come mastro Giordano fue ingannato da un suo falso discepolo’
Uno medico fue, ch'ebbe nome Giordano, il quale avea uno suo falso discepolo. Infermò uno figliuolo d'uno re. Il maestro v'andò e vide ch'era da guarire. Il discepolo, per torre il pregio al maestro, disse al padre:
«Io veggio segni ch'elli morrà certamente»; e, contendendo col maestro, sì fece aprire la bocca allo 'nfermo e, col dito stremo, li vi puose veleno, mostrando molta conoscenza in sulla lingua.
L'uomo morìo. Lo maestro se n'avide: perdeo il pregio suo, e 'l discepolo il guadagnò.
Allora il maestro giurò di mai non medicare se non asini, e fece la fisica delle bestie e de' vili animali.
‘Qui divisa dell'onore che Aminadab fece al re David, suo naturale signore’
Aminadab, conduttore e mariscalco del re Davit, andò con grandissimo exercito di gente, per comandamento del re Davit, a una città de' Filistei.
Udendo Aminadab che·lla città non si potea più tenere e che s'avrebbe di corto, mandò al re Davit che li piacesse di venire all'oste con moltitudine di gente perché dottava del campo. Il re Davit si mosse incontanente et andò nel campo.
Ad Aminadab suo mariscalco domandoe:
«Perché mi ci ha' fatto venire?».
Aminadab rispuose:
«Messere, perché la città non si può più tenere, et io volea che la vostra persona avesse il pregio di così bella vittoria, anzi che l'avessi io».
Combatteo la città e vinsela; e lo pregio e l'onore n'ebbe lo re Davit.
‘Qui conta come Antigono, mariscalco d'Alexandro,il riprese perch'elli facea sonare una cetera per suo diletto’
Antigono, conducitore d'Alexandro, facendo Alexandro un giorno per suo diletto sonare — e 'l sonare era d'una cetera —, Antigono prese la cetera e ruppela e gittolla nel fango, e disse ad Alexandro cotali parole:
«Al tuo tempo et etade si conviene regnare, e non ceterare».
E così si può dire: il corpo dell'uomo si è regno; vil cosa è la luxuria e quasi ha guisa di cetera. Vergognisi dunque chi de' regnare in virtude e diletta in luxuria.
Re Poro, il quale combattè con Alexandro, a un mangiare fece tagliare le corde della cetera a un ceteratore e disse queste parole:
«Meglio è tagliare che sviare: ché per dolcezza di suoni si perdono virtudi».
‘Come uno re fece nodrire un suo figliuolo anni dieci in tenebrose spilonche,e come le donzelle li piacquero sopra l'altre cose’
A uno re nacque uno figliuolo; i savi strolagi providero che, s'elli non stesse anni dieci che non vedesse il sole, che perderebbe il vedere.
Allora il re il fece guardare in tenebrose spelonche il tempo detto, poi lo fece fuori trarre e dinanzi lui mettere molte gioie e cose belle e di belle donzelle, nominandole a lui tutte per nome; e, dettoli le donzelle essere dimoni, poi lui domandaro qual d'esse più li fosse graziosa.
Rispuose: «I domoni».
Allora lo re di ciò si maravigliò molto, dicente:
«Che cos'a tirannia è bellore di donna!»
‘Come uno rettore d'una terra, per osservare giustizia e misericordia,fece cavare un occhio a sé et uno al figliuolo’
Valerio Maximo, i·llibro sexto, narra che Calenzino, essendo rettore d'una terra, ordinò che chi andasse a moglie altrui dovesse perdere li occhi.
Poco tempo passante, vi cadde uno suo figliuolo.
Lo popolo tutto li gridava misericordia; et elli, pensando che misericordia era buona cosa et utile, e pensando che la giustizia non vuole perire — e l'amore de' suo' cittadini che li gridavano mercé lo stringea —, providesi d'osservare l'uno e l'altro, cioè giustizia e misericordia. Giudicò e sentenziò c'al figliuolo fosse cavato l'uno occhio, e a·ssé medesimo l'altro.
‘Qui parla della gran misericordia che fece san Paulino vescovo’
Beato Paulino vescovo fu tanto misericordioso che, cheggendoli una povera femina misericordia per uno suo figliuolo ch'era in pregione, e Beato Paulino rispuose:
«Femmina, non ho di che ti sovenire d'altro, ma fa' così: menami alla carcere ov'è 'l tuo figliuolo».
Menòlvi, ed elli si mise in pregione, in mano de' tortori, e disse:
«Rendete lo figliuolo a questa buona femina, e me ritenete per lui».
‘Della grande limoxina che fece uno tavoliere per Dio’
Piero tavoliere fu grande uomo d'avere; e venne tanto misericordioso, che 'mprima tutto l'avere dispese a' poveri per Dio e poi, quando tutto ebbe dato, et elli si fece vendere, e il prezzo diede a' poveri tutto.
‘Della vendetta che Dio fece d'uno barone di Carlo Magno’
Carlo Magno essendo ad oste sopra ' Saracini, venne l'ora della morte. Fece suo testamento. Intra l'altre cose, giudicò suo cavallo e sue arme a' poveri, e lasciò a un suo barone che·lle vendesse e desse a' poveri. Quelli le si tenne, e non ubbidìo. Carlo tornò a lui e disseli così:
«Otto generazioni di pene m'hai fatte sofferire in Purgatorio per die, per lo cavallo e l'arme che ritenesti. Ma, grazia del Signore mio, io ne vo purgato in cielo; e tu la comperai amaramente»: che, udento centomilia genti, venne un truono da cielo; et andonne con lui in abisso.
Essendo Carlo Magno ad oste sopra li Saracini, ad uno suo cavaliere venne l'ora della morte. Fece suo testamento. Tra l'altre cose, giudicò il suo cavallo e sue armi alli poveri, e lassò a uno suo parente che ‘le’ vendesse, e dispensasse li danari a' poveri.
Lo cavaliere morìo. Quelli vendette l'arme e cavallo; li danari si ritenne. Ma, perciò che la vengianza dello verace Iustiziatore è prossimana al malfaccente, si aparve il difunto a colui in capo de trenta die e dissegli:
«Perciò che lo mio racomandai a dispensare i·llimosina pro anima mia, sappi che Dio m'ha diliberato da tutti li miei peccati; e, perciò che mia limosina ritenesti, trenta giorni m'hai fatto istare in pena. Sì ti dico che, in questo luogo ove io sono istato, interai tue domane; et io mi ne voe salvo in Paradiso».
Quelli si svegliò tutto ismarito: la matina contò per l'oste ciò ch'elli avea udito.
Sì come elli parlava tra·lloro di sì grande maraviglia, et ecco venire subbitamente uno gridare in ê·ll'aria, sopra lui, sì come mughiamento di leone e di lupo e d'orso: in quella ora fue rapito di tra loro, tutto vivo, nell'aria.
Quattro giorni lo cerconno cavalieri e sergenti per monti e per valli, ma trovare non pottono.
Dodici giorni apresso di ciò andò l'oste di Carlo Magno per la terra di Navarra, et i·Navarra lo ritrovarono, lo corpo tutto freddo, in uno pietreto, presso a tre leghe del mare et a quattro giornate di Baiona: qui ne aviano li diavoli gittata la carogna, e l'anima nello inferno portata.
Per questo exemplo sappiamo, quelli che le limosine delli defunti ritegnono, quelli si dannan perpetualemente.
‘Qui parla della grande liberalità e cortesia del re giovane’
Leggesi della bontà del re giovane guerreggiando col padre per lo consiglio di Beltrame dal Bornio: lo quale Beltrame si vantò ch'elli avea più senno che niuno altro. Di ciò nacquero molte sentenzie, delle quali ne sono scritte qui alquante.
Beltrame ordinò co·llui che·ssi facesse dare al padre la sua parte di tutto lo tesoro. Lo figliuolo lil domandò tanto ch'elli l'ebbe. Quelli lile fece tutto donare a gentili genti et a poveri cavalieri, sì che rimase a neente, e non avea che donare.
Un uomo di corte li adomandò che li donasse; quelli rispuose ch'avea tutto donato: «ma' tanto m'è rimaso ancora: ch'i' ho nella bocca un laido dente, onde mio padre ha offerti duomila marchi a chi mi sa sì pregare, ch'io lo diparta dagli altri. Va' a mio padre e fatti dare li marchi, e io il mi trarrò alla tua petizione».
Il giullare andò al padre e prese i marchi, et elli si trasse il dente.
E un altro giorno avenne ch'elli donava a uno gentile uomo dugento marchi, e 'l siniscalco (overo tesoriere) prese que' marchi e mise uno tappeto in su la sala e versollivi suso, et uno luffo di tappeto mise di sotto, perché il monte paresse maggiore. Et andando il re giovane per la sala, lile mostrò il tesoriere dicendo:
«Or guardate, Messere, come donate: vedete quanti sono dugento marchi, che li avete così per neente!».
E que' li avisò e disse:
«Piccola quantitade mi sembra a donare a così valente uomo! Dara'line quattrocento: ché troppo credeva che fossero più i dugento marchi, che non mi sembrano a vista».
‘Qui parla della grandissima liberalità e cortesia del re d'Inghilterra’
Lo giovane re d'Inghilterra spendea e donava tutto. Un povero cavaliere avisò un giorno un coperchio d'uno nappo d'ariento, e disse nell'animo suo:
«Se io posso nascondere quello, la masnada mia ne starà molti giorni».
Misesi il coperchio dell'argento sotto.
I siniscalchi, al levare delle tavole, riguardarono l'argento; trovarlo meno; cominciarlo a metterlo in grido et a cercare i cavalieri alla porta.
Il re giovane avisò costui che l'avea e venne sanza romore a·llui e disseli chetissimamente:
«Mettilo sotto a me, che non sarò cerco»; e lo cavaliere, pieno di vergognosa vergogna, così fece: miselile sotto, e 'l re giovane lile rendé fuori della porta e miselile sotto e poi lo fece chiamare e donogli l'altra partita.
E più di cortesia fece una notte che poveri cavalieri entrarono nella camera sua credendo veramente che lo re giovane dormisse. Adunaro li arnesi e le robe a guisa di furto. Quando ebero tutto furato, ebbevene uno che malvolentieri lasciava una ricca coltre che 'l re avea sopra. Presela e cominciò a·ttirare.
Lo re, per non rimanere scoperto, prese la sua partita e teneva. Siccome que' tirava tanto, che per fare più tosto li altri vi puosero mano, allora lo re parlò e disse:
«Questa sarebbe ruberia, e non furto, cioè a torre per forza!»
Li cavalieri fuggiro, quando l'udiro parlare, che prima credevano che dormisse.
Un giorno lo re vecchio, padre di questo re giovane, lo riprendea forte dicendo:
«Dov'è tuo tesoro?»
Et elli rispuose:
«Messere, io n'ho più che voi non n'avete».
Quivi fue il sì e 'l no. Ingaggiarsi le parti. Aggiornaro il giorno, che ciascuno mostrasse suo tesoro. Lo re giovane invitò tutti i cavalieri del paese, che a cotal giorno fossero in quella parte.
Il padre quello giorno fece tendere uno ricco padiglione e fece venire oro e argento in piastre e vasella, et arnese assai; pietre preziose versò su·ppe' tappeti, e disse al figliuolo:
«Ov'è il tuo tesoro?».
Allora il figliuolo trasse la spada del fodero. Li cavalieri adunati trassero per le rughe e per le piazze: tutta la terra parea piena di cavalieri. Il re vecchio non poteo riparare: il tesoro rimase alla signoria del re giovane, lo quale disse a' cavalieri:
«Prendete il tesoro vostro».
Chi prese oro, chi vasello, chi una cosa, chi un'altra, sì che di subito fu distribuito.
Il padre ragunò poi suo sforzo per prenderlo; lo figliuolo si rinchiuse in uno castello, e Beltrame dal Bornio con lui. Il padre vi venne ad asedio. Un giorno, per troppa sicurtà, li venne un quadrello per la fronte disaventuratamente, che la contraria fortuna che 'l seguitava l'uccise. Ma, innanzi ch'elli morisse, vennero a·llui tutti i suoi creditori e adomandaro loro tesoro che a·llui aveano prestato.
Il re giovane rispuose:
«Signori, a mala stagione venite: ché 'l vostro tesoro è dispeso, li arnesi sono donati, il corpo mio è infermo: non avreste ormai, di me, buono pegno. Ma fé venire uno scrittore».
Lo scrittore fue venuto.
«Iscrivi» disse quel re cortese «ch'io obligo l'anima mia a perpetua pregione infino a tanto che voi pagati siate».
Morìo. Questi, dopo la morte, andaro al padre suo e domandaro la moneta. Il padre rispuose loro aspramente dicendo:
«Voi siete quelli che prestavate al mio figliuolo ond'elli mi facea guerra; et imperò, sotto pena del cuore e dell'avere, vi partite di tutta mia forza!»
Allora l'uno parlò e disse:
«Messere, noi non saremo perdenti, ché noi avemo l'anima sua in pregione»;
e lo re domandò in che maniera, e quelli mostraro la carta. Allora lo padre s'umiliò e disse:
«Non piaccia a Dio che l'anima di così valente uomo stea in pregione per moneta»;
e comandò che fossero pagati, e così furo.
Poi venne Beltrame dal Bornio in sua forza, e quelli lo domandò e disse:
«Tu dicesti ch'avei più senno che uomo del mondo. Or ov'è tuo senno?».
Beltrame rispuose:
«Messere, io l'ho perduto».
«E quando l'hai perduto?».
«Messere, quando nostro figliuolo morìo».
Allora lo re conobbe che 'l vanto che si dava sì era per la bontà del figliuolo: perdonolli e donolli.
‘Come tre maestri di nigromanzia vennero alla corte dello 'mperadore Federigo’
Lo 'mperadore Federigo fue nobilissimo signore; e·lla gente ch'avea bontade venia a·llui di tutte parti, però che l'uomo donava volentieri e mostrava belli sembianti a chi avesse alcuna speziale bontà. A·llui veniano sonatori, trovatori e belli favellatori, uomini d'arti, giostratori, schermitori, e d'ogni maniera gente.
Stando lo 'mperadore Federigo — e facea dare l'acqua alle mani, le tavole coverte: e non era ch'entrare a tavola —, sì giunsero a·llui tre maestri di negromanzia con tre schiavine. Salutarlo così di subito, et elli domandò:
«Qual'è il maestro, di voi tre?».
L'uno si fece avanti e disse:
«Messere, io sono»; e lo 'mperadore il pregò che giucasse. Cortesemente quelli gittaro loro incantamenti e fecero loro arti.
Il tempo incominciò a turbare: ecco una pioggia repente e spessa, li tuoni, li folgóri e ' baleni, che 'l mondo parea che fondesse; una gragnuola, che parea çopelli d'acciaio. I cavalieri fuggiano per le camere, chi in una parte, chi in un'altra.
Rischiarossi il tempo. Li maestri chiesero commiato e chiesero guiderdone. Lo 'mperadore disse:
«Domandate».
Que' domandaro il conte di San Bonifazio, ched era più presso allo 'mperadore, e dissero:
«Messere, comandate a costui che vegna in nostro soccorso contra li nostri nemici».
Lo 'mperadore lile comandò teneramente. Misesi il conte in via co·lloro: menarlo in una bella cittade, cavalieri li mostrò di gran paraggio, bel destriere e bell'arme li aprestaro, e dissero al conte:
«Questi sono a·tte ubbidire».
E mostrarogli li nimici. Vennero a la battaglia: il conte li sconfisse e francò lo paese. E poi ne fece tre, delle battaglie ordinate in campo. Vinse la terra. Diederli moglie. Ebbe figliuoli. Dopo, molto tempo tenne la Signoria.
Lasciarlo grandissimo tempo, poi ritornaro. Il figliuolo del conte avea già bene quaranta anni; il conte era vecchio. I maestri dissono:
«Riconoscici tu? Vuo' tu ritornare a vedere lo 'mperadore e la corte?»
E 'l conte rispuose:
«Lo 'mperio fi aora più volte mutato; le genti fier ora tutte nuove: dove ritornerai?».
E ' maestri dissero:
«Noi vi ti volemo al postutto menare».
Misersi in via; camminaro gran tempo; giunsero in corte; trovaro lo 'mperadore e 'suoi baroni, ch'ancor si dava l'acqua la qual si dava quando il conte n'andò co' maestri.
Lo 'mperadore li facea contare la novella; que' la contava:
«I' ho poi moglie, e figliuolo c'ha quaranta anni; tre battaglie di campo ho poi fatte. Il mondo è tutto rivolto! Come va questo fatto?»
Lo 'mperadore lile fa raccontare con grandissima festa, e i baroni e ' cavalieri.
‘Come allo 'mperadore Federigo si fuggì uno suo astore dentro a Melano’
Lo 'mperadore Federigo stando ad assedio a Melano, sì li si fuggì un suo astore e volò dentro a Melano. Lo 'mperadore fece ambasciadori e rimandò per esso in Melano. La Podesta ne tenne consiglio; aringatori v'ebbe assai: tutti diceano che cortesia era a rimandarlo, più c'a tenerlo.
Un melanese vecchio di gran tempo consigliò alla Podesta e disse così:
«Come ci è l'astore, così ci fosse lo 'mperadore, che noi il faremmo sentire di quello ch'elli fa al distretto di Melano! Perch'io consiglio che non li si mandi».
Tornaro li ambasciadori e contaro allo 'mperadore tutto sì come consiglio n'era tenuto.
Lo 'mperadore udendo ciò disse:
«Come può essere, trovarsi niuno in Melano che contradicesse alla proposta?»
Rispuosero li ambasciadori:
«Messer sì».
«E che uomo fu?».
«Messere, fu un vecchio».
«Ciò non può essere» disse lo 'mperadore, «che uomo vecchio dicesse così grande villania, così ignuda di senno».
«Messer, e pur fue».
«Ditemi» disse lo 'mperadore: «di che fazione era, e di che guisa vestito?».
«Messere, elli era canuto e vestito di vergato».
«Ben può essere» disse lo 'mperadore: «dacché egli è vestito di vergato, esser può: ch'egli è uno matto».
‘Qui parla come lo 'mperadore Federigo trovoe uno poltrone ad una fontanae chieseli bere, e come lo 'mperadore li tolse suo bariglione’
Andando lo 'mperadore Federigo a una caccia con veste verdi, sì com'era usato, trovò un poltrone in sembianti a piè d'una fontana; — et avea distesa una tovaglia bianchissima in su l'erba verde et avea suo tamerice con vino e suo mazzero molto pulito. Lo 'mperadore giunse e chieseli bere; e 'l poltrone rispuose:
«Con che ti dare' io bere? A questo nappo non porrai tu bocca! Se tu hai corno del vino, ti do io volentieri».
Lo 'mperadore disse così:
«Prestami tuo bariglione, et io berrò per convento che mia bocca non vi apresserà».
E 'l poltrone lile porse. Que' beve, e tenneli lo convenente; poi non lile rendeo, anzi spronò il cavallo e fuggì col bariglione.
Il poltrone avisò bene, a le vestimenta da caccia, che de' cavalieri dello 'mperadore fosse. L'altro giorno andò a la corte. Lo 'mperadore disse alli uscieri:
«Se ci viene un poltrone di cotal guisa, fatelmi venire dinanzi e non li mi fermate porta».
Il poltrone venne; fue dinanzi a lo 'mperadore; fece suo compianto della perdita di suo bariglione. Lo 'mperadore li fece contare la novella più volte, in grande sollazzo; i baroni l'udiano con gran festa.
E lo 'mperadore li disse:
«Conoscerestu tuo bariglione?»
«Sì, messere».
Allora lo 'mperador lo si trasse di sotto (ché sotto l'avea), per dare a divedere ch'elli era suto in persona.
Allora lo 'mperadore, per la nettezza di lui, li donò riccamente.
‘Come lo 'mperadore Federigo fece una questione a due suoi savie com'elli li guidardonoe’
Messere lo 'mperadore Federigo si avea due grandissimi savi: l'uno avea nome messere Bolghero, e l'altro messere Martino. Stando lo 'mperadore un giorno tra questi due savi, l'uno sì li era dalla destra parte e l'altro dalla sinestra; e lo 'mperadore fece loro una quistione e disse:
«Signori, secondo la vostra legge poss'io a' sudditi miei torre a cu' io mi voglio e dare ad un altro sanz'altra cagione, acciò ch'io sono signore e la legge dice che ciò che piace al signore sii legge intra i sudditi suoi? Dite s'io lo posso fare, poi che mi piace».
L'uno de' due savi rispuose:
«Messere, ciò che ti piace puoi fare di quello de' sudditi tuoi, sanza neuna colpa».
L'altro rispuose e disse:
«Così, Messere, a me non pare, acciò che la legge è giustissima, e le sue condizioni si vogliono giustissimamente osservare e seguitare. Quando voi togliete, si vuole sapere perché, e a cui date».
Perché l'uno savio e l'altro dicea vero, e però donò ad ambendue: all'uno donò capello scarlatto e palafreno bianco, e all'altro donò che facesse una legge a suo senno.
Di questo fu quistione intra ' savi: a cui avea più riccamente donato. Fue tenuto c'a colui, che avea detto che poteva torre come li piacea, donò robbe e palafreno come a giullare, perché l'avea lodato; a colui che seguitava la giustizia, sì diede a fare una legge.
‘Come il Soldano donò a uno dugento marchi e come il tesoriereli scrisse veggente lui ad uscita’
Saladino fu Soldano, nobilissimo signore prode e largo. Un giorno donava a uno dugento marchi, ché l'avea presentato uno paniere di rose, di verno, a una stufa; e 'l tesoriere suo, dinanzi da lui, li scrivea a uscita. Scorseli la penna e scrisse CCC. Disse il Saladino:
«Che fai?».
Disse il tesoriere:
«Messere, errava» e volea dannare il soprapiù.
Allora il Saladino parlò:
«Non dannare: scrivi CCCC. Per mala ventura se una tua penna sarà più larga di me!».
Questo Saladino, al tempo del suo Soldanato, s'ordinò una triegua tra lui e ' Cristiani; e' disse di volere vedere i nostri modi e, se·lli piacessero, diverrebbe cristiano. Fermossi la triegua. Venne il Saladino in persona a vedere la costuma de' Cristiani. Vide le tavole messe per mangiare con tovaglie bianchissime: lodolle molto. E vide l'ordine delle tavole: ove mangiava il re di Francia, partita dall'altre: lodollo assai. Vide le tavole ove mangiavano i maggiorenti: lodolle assai. Vide come li poveri mangiavano in terra vilmente: questo riprese forte, e biasimò molto che li amici di lor Signore mangiavano più vilmente e più basso.
Poi andaro li Cristiani a vedere la loro costuma: videro che i Saracini mangiavano in terra assai laidamente.
E 'l Soldano fece tendere suo padiglione assai ricco là dove mangiavano. In terra fece coprire di tappeti i quali erano tutti lavorati a croci spessissime. I Cristiani stolti entrarono dentro andando con li piedi su per quelle croci, sputandovi suso siccome in terra.
Allora parlò il Soldano e ripreseli forte:
«Voi predicate la Croce e spregiatela tanto? Così pare che voi amiate vostro Iddio in sembianti di parole, ma non in opera. Vostra maniera e vostra guisa non mi piace».
Ruppesi la triegua e cominciossi la guerra.
Avenne che a una battaglia prese uno cavaliere francesco con altri assai, lo quale francesco li venne in grande grazia tra gli altri, et amavalo sopra tutte le cose del mondo. Gli altri tenea in pregione, e costui di fuori, con seco, e vestialo nobilemente: e' non parea che lo Saladino sapesse stare senza lui, tanto l'amava.
Uno giorno avenne che questo cavaliere pensava fortemente fra sé medesimo. Lo Saladino si n'avidde: fecelo chiamare e disse che volea sapere di che istava così pensoso; e quelli non volendo dire, lo Saladino disse:
«Tu pure il dirai».
Lo cavaliere, vedendo questo, ché non potea fare altro dissegli:
«Messere, a me soviene di mia gent'e di mio paese».
E lo Saladino disse:
«Poi che tu non vuogli dimorare con meco, sì ti farò grazia e lascerotti».
Fece chiamare suo tesoriere e disse:
«Dalli CC marchi d'argento.»
‘Lo tesoriere li scrivea in escita’ ...
Messere Amari, signore di molte terre in Proenza, avea uno suo castellano lo quale spendea ismisuratamente. Passando messer Amari per la contrada, quello suo castellano se li fece innanzi, il quale avea nome Beltrame: invitollo che dovesse prendere albergo a·ssua magione. Messer Amari lo dimandò:
«Come hai tue di rendita l'anno?».
Beltramo rispuose:
«Messer, tanto e tanto».
«Come dispendi?».
Disse:
«Messer Amari, spendo, più che io non ho d'intrata più di dugento lire di tornesi lo mese».
Allora messer Amari disse queste parole:
«Qui dispent mais que no gazagna, non pot mudar que no s'afragna».
Partìosi, e non volse rimanere con lui, et andò ad albergare con un altro suo castellano.
‘Qui conta una novella d'un borgese di Francia’
Uno borgese di Francia avea una sua moglie molto bella. Un giorno era a una festa con altre donne della villa. Aveavi una molto bella donna, la quale era molto guardata dalle genti; e la moglie del borgese diceva in fra sé medesima:
«S'io avesse cossì bella cotta com'ella, io sarei sguardata com'ella, perch'io sono altressì bella come sia ella».
Tornò a casa al suo marito e mostrolli cruccioso sembiante. Il marito l'adomandava sovente perch'ella stava crucciata, e·lla donna rispuose:
«Perch'io non sono vestita sì ch'io possa dimorare con l'altre donne: che alla cotal festa l'altre donne, che non sono sì belle com'io, erano sguardate; e io no, per mia laida cotta».
Allora suo marito le 'mpromise, del primo guadagno ch'e' prendesse, di farle una bella cotta.
Pochi giorni dimorò, che venne a·llui un borgese e domandolli dieci marchi in prestanza et offersegliene due marchi di guadagno a certo termine. Il marito rispuose:
«Io non ne farai neente, ché la mia anima ne sarebbe obligata allo 'nferno».
E la moglie rispuose:
«Ai, disleale traditore! Tu 'l fai per non farmi mia cotta!».
Allora il borgese, per le punture della moglie, prestò l'argento a due marchi di guiderdone e fece la cotta a sua mogliere.
La mogliere andò al mostier con l'altre donne. In quella stagione v'era Merlino; quando entrò nella chiesa, et uno parlò e disse:
«Per san Janni, quella è bellissima dama!».
E Merlino, il saggio profeta, parlò e disse:
«Veramente è bella, se i nimici dello 'nferno non avessero parte in sua cotta».
E la donna si volse e disse:
«Ditemi come i nemici d'inferno hanno parte in mia cotta».
«Dama» disse Merlino, «io lo vi dirò. Membravi voi quando voi foste alla festa dove l'altre donne erano sguardate più che voi non eravate, per vostra laida cotta, e che voi tornaste a vostra magione e mostraste cruccio a vostro marito, et elli impromise di farvi una nuova cotta del primo guadagno che prendesse; e da ivi a pochi giorni venne un borgese per dieci marchi in presto a due marchi di guadagno onde voi v'induceste vostro marito? E di sì malvagio guadagno è vostra cotta! Ditemi, dama, s'io fallo di neente».
«Certo, sire, no» rispuose la dama; «e non piaccia a Dio, nostro Sire, che sì malvagia cotta stea sor me»;
e, veggente tutta la gente, la si spogliò e pregò Merlino che la prendesse a diliverare di sì malvagio periglio.
‘Qui conta d'uno grande Moaddo a cui fu detta villania’
Uno grande Moaddo andò ad Alexandria, et andava un giorno per sue bisogne per la terra; et un altro li venia dietro, e dicevali molta villania e molto lo spregiava; e quelli non facea niuno motto. E uno li si fece dinanzi e disse:
«O che non rispondi a colui, che tanta villania ti dice?».
E quelli, sofferente, rispuose e disse così a colui che li dicea che rispondesse:
«Io non rispondo, perch'io non odo cosa che mi piaccia».
‘Qui conta della costuma ch'era nel reame di Francia’
Costuma era per lo reame di Francia che l'uomo ch'era degno d'essere disonorato e giustiziato si andava in su la caretta, e, se avvenisse che campasse la morte, giamai non trovava chi volesse usare co·llui né stare né vederlo per niuna condizione. Lancialot, quand'elli divenne forsenato per amore della reina Genevra, si andò in sulla carretta, e fecesi tirare per molte luogora. E da quello giorno inanzi non si spregiò più la carretta, anzi si mutò la costuma: ché le donne e le damigelle di gran paraggio, e ' cavalieri, vi vanno suso a sollazzo.
Oi mondo errante e sconoscente, uomini di poca cortesia! Quanto fu maggiore il Signore Nostro, che fé il cielo e la terra, che non fu Lancialotto! Lancialotto fue un cavaliere di scudo, e mutò e rivolse sì grande costuma nel reame di Francia, ch'era reame altrui; e Gesù Cristo Nostro Signore non poteo, perdonando a' suoi offenditori, che niuno uomo perdoni: e questo volle e fece nel reame suo! Quelli che 'l puosero in croce infino alla morte, a coloro perdonò, e pregò il Padre suo per loro.
‘Qui conta come i savi astrologi disputavano del cielo impireo’
Grandissimi savi stavano in una scuola a Parigi e disputavano del cielo impireo e molto
ne parlavano disiderosamente e come stava di sopra li altri cieli. Contavano il cielo
dov'è Saturno, e di Giupiter e di Mars, e quel del Sole e di Venus e della Luna, e come
sopra tutti stava lo 'mpireo cielo; — e sopra quello sta Dio Padre
Così parlando, venne un matto e disse loro:
«Signori, e sopra capo di quel Signore, che ha?».
E l'uno rispuose a gabbo:
«Havi un capello».
Il matto se n'andò, e ' savi rimasero. Disse l'uno:
«Tu credi al matto aver dato il capello, ma elli è rimaso a noi. Or diciamo sopra capo che ha».
Assai cercaro loro scienzie: non trovaro neente. Allora dissero:
«Matto è colui ch'è sì ardito che la mente metta difuori dal tondo».
E via più matto e forsennato quelli che pena e pensa di sapere il suo Principio, e sanza veruno senno chi vuol sapere li suo' profondissimi pensieri, quando que' molto savi non potero invenire solamente quello ch'Egli sopra capo avesse.
‘Qui conta d'uno cavaliere di Lombardia come dispese il suo’
Uno cavaliere di Lombardia era molto amico dello 'mperadore Federigo, et avea nome messer G., il quale non avea reda nulla che suo figliuolo fosse: bene avea gente di suo legnaggio.
Puosesi in cuore di volere tutto dispendere alla vita sua, sicché non rimanesse il suo dopo lui. Estimò quanto potesse vivere, e soprapuosesi bene anni diece; ma non si soprapuose tanto: ché, dispendendo il suo e consumando e scialacquando, li anni sopravennero e soperchiolli tempo. Rimase povero, ch'avea tutto dispeso.
Puosesi mente nel povero stato suo, e ricordossi dello 'mperadore Federigo, ché grande amistade avea co·llui e nella sua corte molto avea dispeso e donato. Propuosesi d'andare a·llui, credendo che l'accogliesse a grande onore.
Andò allo 'mperadore e fu dinanzi da lui. Domandò chi e' fosse, tuttoché bene lo conoscea. Quelli li racontò suo nome. Lo 'mperadore lo domandò di suo stato. Il cavaliere li contò tutto sì come si propuose, e come il tempo li era soperchiato et avea tutto dispeso. Lo 'mperadore rispuose:
«Esci fuor di mia corte! E, sotto pena della vita, non venire in mia forza, perciò che tu se' quelli che non volei che dopo i tuoi anni niuno avesse bene».
‘Qui conta d'uno novellatore ch'avea messere Azzolino’
Messere Azzolino di Romano avea un suo favolatore, al quale facea favolare la notte quando erano le notti grandi di verno. Una notte avenne che 'l favolatore avea grande talento di dormire, et Azzolino il pregava che favolasse.
E 'l favoliere incominciò una favola d'uno villano che avea suoi cento bisanti, il quale andò a uno mercato a comperare berbici, et ebbene due per bisanto. Tornando con le pecore sue, uno fiume ch'avea passato era molto cresciuto per una grande pioggia che venuta era. Stando alla riva, brigossi d'accivire in questo modo: che un povero pescatore avea un suo piccolo burchiello (sì a dismisura piccolo, che non vi capea più che 'l villano e una pecora per volta); allora il villano cominciò a passare. Il fiume era largo. Misesi con una berbice nel burchiello e cominciò a vogare. Voga e passa.
E lo favolatore fue ristato, e non dicea più. Messere Azzolino disse:
«Andè oltra».
E 'l favolatore disse:
«Messere, lasciate passare le pecore, poi conteremo il fatto».
Le pecore non sarebero passate in uno anno, sicché intanto potea bene ad agio dormire.
‘Delle belle valentie che fece Riccar lo Ghercio dell'Ila’
Riccar lo Ghercio fu signore dell'Illa, e fu grande gentile uomo di Proenza, e di grande ardire, e fue pro a dismisura; e quando i Saracini vennero per combattere la Spagna, sì fu elli in quella battaglia che si chiamò la Spagnata, la quale fine la più perigliosa battaglia che fosse, da quella de' Troiani e de' Greci in qua. Allora erano i Saracini grandissima multitudine e con molte generazioni di stormenti, sicché Riccar lo Ghercio fue il conduttore della prima battaglia; e, per cagione che li cavalli non si poteano mettere avanti per lo spavento delli stormenti, sì comandò a tutta sua gente che volgessero le groppe de' cavalli alli nemici; e tanto ricularo i cavalli, che furo tra i nemici. Poi, quando fue mischiato tra nemici così riculando, et elli ebbe la battaglia davanti, venne uccidendo a destra e a sinestra, sicché misero i nemici a distruzione.
E quando il conte di Tolosa si combatteo col conte di Provenza altra stagione, sì dismontò del distriere Riccar lo Ghercio, e montò in su uno mulo. E 'l conte li disse:
«Che è ciò, Riccardo?».
«Messere, voglio dimostrare ch'io non ci sono né per cacciare, né per fuggire».
Qui dimostrò la sua grande franchezza, la quale era nella sua persona oltre alli altri cavalieri.
‘Qui conta una novella di messere Imberal dal Balzo’
Messere Imberal dal Balzo, grande castellano di Proenza, vivea molto ad algura a guisa espagnola: — et un filosafo ch'ebbe nome Pittagora fu di Spagna, e fece una tavola per istorlomia la quale, secondo i dodici segnali, v'erano molte significazioni d'animali: quando li uccelli s'azzuffano, quando uomo truova la donnola nella via, quando lo fuoco suona, e delle giandae e delle gazze e delle cornacchie: così di molti animali molte significazioni secondo la luna.
E così messere Imberal, cavalcando un giorno con sua compagnia, andavasi prendendo guardia di questi uccelli, perché si temea d'incontrare algure. Trovò una femina in uno camino; domandolla e disse:
«Dimmi, donna: hai questa mattinata veduti di questi uccelli grandi, siccome corbi, cornillie o gazze?»
E la femina rispuose:
«Ségner oc, ie‘u’ vi una cornacchia in su uno ceppo di salce».
«Or mi di', donna: enverso qual parte tenea volta sua coda?»
«Sua coda, ségner?» rispuose la femina. «Ella tenea sua coda volta verso 'l cul, ségner».
Allora messere Imberal temeo l'agura e disse a sua compagnia:
«Coveng a Dieu que ie‘u’ non cavalgarai ni ‘h’ui ni dema ‘e’n aquest'agura»;
e molto si contò poi la novella in Proenza, per novissima risposta ch'avea fatta, sanza pensare, quella femina.
‘Come due nobili cavalieri s'amavano di buono amore’
Due nobili cavalieri s'amavano di grande amore. L'uno aveva nome messere G. e l'altro messere S. Questi due cavalieri s'aveano lungamente amato. L'uno di questi si mise a pensare e disse cossì:
«Messere G. ha uno molto bello palafreno. S'io lile cheggio, darebbel·m'egli?»
E, così pensando, facea il partito nel pensiero dicendo:
«Sì darebbe»; l'altro cuor li dicea:
«Non darebbe».
E così, tra 'l sì e 'l no, vinse il partito che non lile darebbe.
Il cavaliere fu turbato, e cominciò a venire col sembiante strano, e ingrossò contro all'amico suo, e ciascuno giorno il pensare cresceva e rinnovellava il cruccio. Lasciolli di parlare e volgeasi, quando elli passava, in altra parte. La gente si maravigliava, et elli medesimo si maravigliava forte.
Un giorno avenne che messere G., il cavaliere c'avea il palafreno, non poteo più sofferire. Andò a messere S. e disse:
«Amor mio, compagno mio, perché non mi parli tu? Perché se' tu crucciato?»
Ed e' rispuose:
«Perch'io ti chiesi lo palafreno tuo e tu lo mi negasti».
E quelli rispuose:
«Questo non fu giammai: non può essere. Lo palafreno sia tuo, e la persona: ch'io t'amo come me medesimo».
Allora il cavaliere si riconciliò e ritornò in su l'amore e 'n su l'amistade usata, e riconobbe che non avea ben pensato.
Fue un savio religioso, lo quale era grandissimo tra li Frati Predicatori, il quale avea uno suo fratello che s'atendea di cavalcare in una oste nella quale s'aspettava ch'al postutto battaglia sarebbe co' nimici. Andò aquesto suo fratello frate per ragionare co·llui anzi che andasse: lo frate l'amonìo assai e disseli molte parole, in tra le quali e dopo le quali disse queste parole:
«Tu andrai al nome di Dio: la battaglia è giusta per lo Comune tuo. Sie produomo e non dubitare di morire, ché forsi sanz'ugni ciò ti morestu».
‘Qui conta del maestro Taddeo di Bologna’
Maestro Taddeo, leggendo a' suoi scolari in medicina, trovò che, chi continuo mangiasse nove dì di petronciani, che diverebbe matto; e provavalo secondo fisica.
Un suo scolaro, udendo quel capitolo, propuosesi di volerlo provare: prese a mangiare de' petronciani, et in capo de' nove dì venne dinanzi al maestro e disse:
«Maestro, il cotale capitolo che leggeste non è vero, però ch'io l'hoe provato, e non sono matto»:
e pure alzasi e mostrolli il culo.
«Iscrivete» disse il maestro «che provato è; e facciasene nuova chiosa».
‘Qui conta come uno re crudele perseguitava i Cristiani’
Fue uno re molto crudele, il quale perseguitava il populo di Dio; ed era, la sua, grandissima forza; e niente poteva acquistare contro aquel populo, però che Dio l'amava. Quel re ragionò con Balaam profeta e disse:
«Dimmi, Balaam: che è ciò, che li miei nemici sono assai meno poderosi di me, e io non posso fare loro nullo danno?»
E Balaam rispuose:
«Messere, però ch'e' sono populo di Dio. Ma io farò sì che tu potrai sopra loro: ch'io andrò e maladicerolli, e tu darai la battaglia e averai sopra loro vittoria».
Salìo questo Balaam in su uno asino e andò su per uno monte; e 'l popolo era quasi là giù al piano, e quelli andava per maladirli di sul monte.
Allora l'angelo di Dio li si fece dinanzi, e non lo lasciava passare. Et elli pugnea l'asino credendo che aombrasse, e quelli parlò:
«Non mi battere: vedi l'angelo di Dio con una spada di fuoco in mano, che non mi lascia andare!».
Allora lo profeta Balaam guardò e vide l'angelo, e l'angelo parlò e disse:
«Che è ciò, che tu vai a maladire il popolo di Dio? Incontanente, se tu non vuoli morire, lo benedì come tu lo volevi maladire».
Andò il profeta, e benedicea lo popolo di Dio; e lo re dicea:
«Che fai? Questo non è maladire!».
E que' rispuose:
«Non può essere altro, pero che l'angelo di Dio il mi comandò. Onde fa' così: tu hai di belle femine, et elli n'hanno dischesta. To'·ne una quantità di molte belle e fa' loro ricche vestimenta e poni loro da petto una nusca d'ariento o d'oro, cioè una boccola con uno fibbiaglio, nella quale sia intagliata l'idola che tue adori (ché adorava la statua di Mars), e dirai così loro: ch'elle non consentano a neuno, se non promettono imprima d'adorare quella figura di Mars; — e 'mponi loro grande pena, c'al postutto non consentano in altra guisa. E poi, quando elli avranno peccato, io avrò balìa di maladirli».
E lo re così fece: tolse di belle femine e mandolle in quel modo nel campo. Li uomini n'erano vogliosi: consentivano e adoravano l'idole, e poi peccavano con esse. Allora lo profeta andò e maladisse lo popolo di Dio, e Dio non li atoe; e quello re diede battaglia e sconfisseli tutti, onde li giusti patiro la pena della colpa d'alquanti che peccaro. Ravidersi e fecero penitenzia e cacciaro le femine e riconciliarsi con Dio, e tornaro nella loro franchigia.
‘Qui conta d'una battaglia che fu tra due re di Grecia’
Due re furo, ch'erano delle parti di Grecia; e l'uno iera troppo più poderoso che l'altro. Furo insieme a battaglia: lo più poderoso perdeo. Andonne in una sua camera, e maravigliavasi, siccome avesse sognato; e al postutto non credeva avere combattuto.
In quella l'angelo di Dio venne a·llui e disse:
«Come isté? Che pensi? Tu non hai sognato, anzi combattuto; e se' isconfitto».
E lo re aguardò l'angelo e disse:
«Come può essere? Io avea tre cotanta gente di lui! Perché m'è avenuto?».
E l'angelo rispuose:
«Però che tu se' nimico di Dio».
Allora lo re disse:
«O è lo nemico mio sì amico di Dio, che però m'abbia vinto?».
«No» disse l'angelo: «che Dio fa vendetta del nimico suo col nimico suo. Va' tu coll'oste tua e ripugna co·llui, e tu lo sconfiggerai com'elli ha fatto te».
Allora questi andò e ricombatté col nemico suo e sconfisselo e preselo, sì come l'angelo li avea detto.
‘D'uno strologo ch'ebbe nome Melisus, che fu ripreso da una donna’
Uno, lo quale ebbe nome Tale milesius, grandissimo savio in molte scienzie, e specialmente in istrologia, secondo che si legge in libro
«Vedi, donna: l'uscio mi lascerai aperto istanotte, però ch'io mi sono costumato di levare a provedere le stelle».
La femina lasciò l'uscio aperto. La notte piovve. Dinanzi alla casa avea una fossa. Empiessi d'acqua. Quando que' si levò, caddevi dentro. Que' cominciò a gridare aiutorio. La femina domandò:
«Che hai?».
Que' rispuose:
«Io sono caduto in una fossa».
«Oi cattivo!» disse la femina. «Or tu badi nel cielo, e non ti sai tener mente a' piedi!».
Levossi questa femina et aiutollo che periva in una vile fossatella d'acqua per poca e per cattiva provedenza.
‘Qui conta del vescovo Aldobrandino come fu schernito da un frate’
Quando il vescovo Aldobrandino vivea, mangiando al vescovado suo d'Orbivieto un giorno a una tavola ov'era uno frate minore a mangiare — lo quale frate mangiava una cipolla molto savorosamente e con fine apetito — il vescovo guardandolo disse a uno donzello:
«Vammi a quello frate e dilli che volentieri gli acambiarei a stomaco».
Lo donzello andò e disselile; e lo frate rispuose:
«Và, di' a messere che ben credo che volentieri m'acambierebbe a stomaco, ma non a vescovado».
‘D'uno uomo di corte ch'avea nome Saladino’
Saladino, lo quale era uomo di corte, essendo, in Cicilia, per mangiare a una tavola con molti cavalieri — e davasi l'acqua — uno cavaliere disse:
«Saladino, lavati la bocca, e non le mani».
E Saladino rispuose:
«Messere, io non parlai oggi di voi».
Poi, quando piazzeggiavano, così riposando, in sul mangiare, fue domandato il Saladino per un altro cavaliere così dicendo:
«Dimmi, Saladino: s'io volesse dire una mia novella, a cui la dico per lo più savio di noi?».
E 'l Saladino rispuose:
«Messere, ditela a qualunqua vi pare il piue matto».
I cavalieri, mettendolo in quistione, pregarlo ch'aprisse loro sua risposta, sì che lo potessero intendere; e 'l Saladino parlò e disse così:
«Ai matti ogni matto per savio per la sua somiglianza. Adunque, quando al matto sembrerà uomo più matto, fie quel cotale più savio: però che 'l savere è contrario della mattezza, ad ogni matto i savi paiono matti, sì come a' savi i matti paiono veramente matti».
‘Una novella di messer Polo Traversaro’
Messer Polo Traversaro fu di Romagna, e fu lo più nobile uomo di tutta Romagna, e quasi tutta Romagna signoreggiava a cheto.
Aveavi tre cavalieri molto leggiadri, e non parea loro che in Romagna avesse nessuno uomo che potesse sedere con loro in quarto. E però, là ov'elli teneano corte, aveano fatta una panca da tre, e più non ve ne capevano: e niuno era ardito che su vi sedesse, temendo la loro leggiadria; e, tuttoché messere Polo fosse loro maggiore — et ellino nell'altre cose l'ubbidiano —, ma pure in quello luogo leggiadro non ardia sedere, tutto ancora che confessavano bene ch'elli era lo migliore uomo di Romagna e 'l più presso da dover essere il quarto che niuno altro.
Che fecero i tre cavalieri? Vedendo che messer Polo li seguitava troppo, rimuraro mezzo l'uscio d'un loro palagio perché non vi entrasse. L'uomo era molto grosso di persona: non potendovi entrare, spogliossi ed entrovi in camisa. Quelli, quando il sentiro, entraro nelle letta e fecersi coprire come ' malati. Messere Polo giunse che li credeva trovare a tavola: trovolli nelle letta. Confortolli e domandolli di loro malavoglia, e avedeasine ben; e chiese commiato, e partissi da loro.
Que' cavalieri dissero:
«Questo non è giuoco»:
andarne a una villa dell'uno (quivi avea bello castelletto con bello fosso e bel ponte levatoio): posersi in cuore di fare quivi il verno.
Un die messere Polo v'andò con bella compagnia. Quando volle entrare dentro, que' levaro il ponte. Assai poté dire, che non v'entrò; e ritornossi indietro.
Passato il verno, ritornaro i tre cavalieri alla città. Messere Polo, quand'elli tornaro, non si levò; e que' ristettero, e l'uno disse:
«O messere, per mala ventura! che cortesie sono le vostre? Quando i forestieri giungono a città, voi non vi levate per loro?».
E messere Polo rispuose:
«Perdonatemi, messere: ch'io non mi levo se non per lo ponte che si levò per me».
Allora li cavalieri ne fecero grande festa.
Morìo l'uno de' cavalieri; e quelli segaro la sua terza parte della panca ove sedeano, quando il terzo fu morto, però che non trovaro in tutta Romagna neuno che fosse degno di sedere in suo luogo.
‘Qui apresso conta una bellissima novella di Guiglielmo di Berghedan di Proenza’
Guiglielmo di Berghedan fue nobile cavaliere di Proenza al tempo del conte Raymondo Berlinghieri. Un giorno avenne che ' cavalieri si vantavano, e Guiglielmo si vantò che non avea niuno nobile uomo in Proenza che non gli avesse fatto votare la sella e giaciuto con sua mogliera: e questo disse in aldienza del conte. E 'l conte rispuose:
«Or mee?».
Guiglielmo disse:
«Voi, signor, il vi dirai».
Fece venire un suo destrier sellato e cinghiato bene; li sproni in piedi, mise il piè nella streva, prese l'arcione e, quando fu così ammanato, parlò al conte e disse:
«Voi, signor, né metto né traggo»; e monta in sul destriere e sprona e va via.
Il conte s'adiroe molto. Que' non veniva a corte. Un giorno si ragunaro donne a uno nobile convito: mandaro per Guiglielmo — e la contessa vi fu —, e dissero:
«Or ci di', Guiglielmo: perché hai tu così unite le nobili donne di Proenza? Cara la comperai!».
Catuna avea uno mattero sotto. Quella che li parlava li disse:
«Pensa, Guiglielmo, che per la tua follia e' ti conviene morire».
E Guiglielmo, vedendo che così era sorpreso, parlò e disse:
«D'una cosa vi prego, donne, per amore della cosa che voi più amate: che inanzi ch'io muoia voi mi facciate un dono».
Le donne risposero:
«Volentieri: domanda, salvo che tu non dimandi tua scampa».
Allora Guiglielmo parlò e disse:
«Donne, io vi priego per amore che quale di voi è la più putta, quella mi dea in prima».
Allora l'una riguarda l'altra: non si trovò chi prima li volesse dare, e così scampò aquella volta.
‘Qui conta di messer Giacopino Rangoni com'elli fece a un giullare’
Messere Jacopino Rangoni, nobile cavaliere di Lombardia, stando uno giorno a una tavola, avea due ingaistare di finissimo vino innanzi, bianco e vermiglio. Un giucolare stava a quella tavola, e non s'ardiva di chiedere di quel vino. Avendone grandissima voglia, levossi suso e prese uno muiuolo e lavollo smisuratamente bene e davantaggio e, poi che l'ebbe così lavato e sciacquato molto, girò la mano e disse:
«Messere, io lavato l'hoe».
E messere Jacopino diè della mano nelle guastade e disse:
«E tu il pettinerai altrove che non qui».
Il giullare si rimase così, e non ebbe del vino.
‘D'una quistione che fu posta ad un uomo di corte’
Marco Lombardo fue nobile uomo di corte e fue molto savio. Fue a uno Natale a una cittade dove si donavano molte robe, e non n'ebbe niuna. Trovò un altro di corte, lo qual era nesciente persona appo lui, e avea avute robe. Di questo nacque una bella sentenza, ché quello giullaro disse a Marco:
«Che è ciò, Marco, ch'io ho avute sette robe e tu non niuna? E sì se' tu troppo migliore uomo e più savio di me! Quale è la ragione?».
E Marco rispuose:
«Non è per altro, se non che tu trovasti più de' tuoi ch'io de' miei».
‘Come Lancialotto si combatté uno giorno a una fontana’
Messere Lancialotto si combattea un giorno a piè d'una fontana con uno cavaliere di Sansogna, lo quale avea nome A.: e combattevansi aspramente alle spade, dismontati de' loro cavalli. E, quando presero alena, si domandò l'uno del nome dell'altro. Allora messere Lancialotto li rispuose e disse:
«Da poi che tu disideri mio nome, or sappi ch'i' ho nome Lancialotto».
Allora si ricominciò la meslea intra ' due cavalieri, e 'l cavalier parlò a Lancialotto e disse:
«Più mi nuoce tuo nome che non fa la tua prodezza»: però che, saputo ch'egli era Lancialotto, si cominciò il cavaliere a dottare la bontà sua.
‘Qui conta come Narcis s'innamorò dell'ombra sua’
Narcis fue molto bellissimo. Un giorno avenne ch'e' si riposava sopra una bella fontana. Guardò nell'acqua: vide l'ombra sua ch'iera molto bellissima. Incominciò a riguardarla e rallegrarsi sopra la fonte, e l'ombra sua facea il simigliante; e così credette che quella fosse persona che avesse vita, che istesse nell'acqua, e non si acorgea che fosse l'ombra sua. Cominciò ad amare, e inamoronne sì forte, che la volle pigliare; e l'acqua si turbò e l'ombra sparìo, ond'elli incominciò a piangere sopra la fonte; e, l'acqua schiarando, vide l'ombra che piangea in sembiante sì com'egli. Allora Narcis si lasciò cadere nella fonte, di guisa che vi morìo e annegò.
Il tempo era di primavera; donne si veniano a diportare alla fonte; videro il bello Narcis anegato. Con grandissimo pianto lo trassero della fonte, e così ritto l'appoggiaro alle sponde, onde dinanzi dallo dio d'Amore andò la novella: onde lo dio d'Amore ne fece un nobilissimo mandorlo, molto verde e molto bene stante: e fue il primaio albero, che prima fa fiorita e rinnovella amore.
‘Qui conta come uno cavaliere richiese un giorno una donna d'amore’
Uno cavaliere pregava un giorno una donna d'amore e diceale intra l'altre parole com'elli era gentile e ricco e bello a dismisura, «e 'l vostro marito è così laido come voi sapete»; e quel cotal marito era dopo la parete della camera. Parlò e disse:
«Eh, messer, per cortesia: acconciate li fatti vostri e non isconciate li altrui».
Messer Lizio di Valbona fu il laido, e l'altro fue messer Rinieri da Calvoli.
‘Qui conta del re Currado, del padre di Curradino’
Leggesi del re Currado, del padre di Curradino, che, quando era garzone, sì avea in compagnia dodici garzoni di sua etade, che li faceano compagnia. Quando lo re Currado fallava in neuna cosa, e ' maestri che·lli erano dati a guardia non lo battevano, ma battevano questi garzoni suoi compagni per lui. E que' dicea:
«Perché battete voi costoro?»
Rispondeano li maestri:
«Per li falli tuoi».
E que' dicea:
«Perché non battete voi me, ch'è mia la colpa?»
Li maestri rispondeano:
«Perché tu se' nostro signore; ma noi battiamo costoro per te. Onde assai ti de' dolere, se tu hai gentil cuore, ch'altri porti pena delle tue colpe».
E per ciò si dice che lo re Currado si guardava di fallire per la pietà di coloro.
‘Qui conta d'uno medico di Tolosa come tolse per moglieuna nepote dell'arcivescovo di Tolosa’
Uno medico di Tolosa tolse per mogliera una gentile donna di Tolosa, nepote dell'arcivescovo. Menolla. In due mesi fece una fanciulla. Il medico non ne mostrò nullo cruccio, anzi consolava la donna e mostravale ragioni secondo fisica, che ben poteva essere sua di ragione: e con quelle parole e con belli sembianti fece sì che nel parto la donna non la poteo traviare. Molto onoroe la donna nel parto; dopo il parto sì l'ebbe e dissele:
«Madonna, io v'ho onorata quant'i' ho potuto; priegovi per amore di me che voi ritorniate omai a casa del vostro padre. La vostra figliuola io terrò a grande onore».
Tanto andaro le cose innanzi, che l'arcivescovo sentì che 'l medico avea dato commiato alla nepote. Mandò per lui e, acciò ch'era grande uomo, parlò sopra a lui molto grandi parole, mischiate con superbia e con minacce. Quand'ebbe assai parlato, e 'l medico rispuose e disse così:
«Messer, io tolsi vostra nepote per moglie credendomi della mia ricchezza potere fornire e pascere mia famiglia; e fu mia intençio d'avere di lei uno figliuolo l'anno e non più, onde la donna ha cominciato a fare figliuoli in due mesi: per la qual cosa io non sono sì agiato, se 'l fatto dee così andare, ch'io li potesse notricare; e voi non sarebbe onore che vostro lignaggio andasse a povertade: perch'io vi cheggio mercede che voi la diate a uno più ricco omo ch'io non sono, che possa notricare i suoi figliuoli sì che a voi non sia disinore».
‘Qui conta di maestro Francesco, figliuolo di maestro Accorso, da Bologna’
Maestro Francesco, figliuolo di maestro Accorso, della città di Bologna, quando ritornò d'Inghilterra, dove era stato lungamente, fece una così fatta proposta dinanzi al Comune di Bologna e disse:
«Un padre d'una famiglia si partì di suo paese per povertade e lasciò i suoi figliuoli e andonne in lontana provincia. Stando uno tempo, et elli vide uomini di sua terra. L'amore de' figliuoli lo strinse a domandare di loro, e que li rispuosero:
«Messere, vostri figliuoli hanno guadagnato e sono molto ricchi».
Allora, udendo così, si propuose di ritornare. Tornò in sua terra; trovoe li figliuoli ricchi. Adomandoe a' suoi figliuoli che 'l rimettessero in sulle possessioni sì come padre e signore. I figliuoli negaro, dicendo così:
«Padre, noi il ci avemo guadagnato: non ci hai che fare!»:
sì che ne nacque piato, onde la legge volle che 'l padre fosse al postutto signore di ciò che aveano guadagnato i figliuoli.
E così andomando io al Comune di Bologna che le possessioni de' miei figliuoli siano a mia signoria: cioè de' miei scolari, li quali sono grandi maestri divenuti, et hanno molto guadagnato poi ch'io mi parti' da·lloro. Piaccia al Comune di Bologna, poi ch'io sono tornato, ch'io sia signore e padre, sì come comanda la legge che parla del padre della famiglia».
‘Qui conta d'una Guasca come si richiamò allo re di Cipri’
Era una Guasca in Cipri; un dì le fu fatta una grande onta, tale che non la potea sofferire. Mossesi et andonne al re di Cipri e disse:
«Messer, a voi sono già fatti diecimilia disinori, et a me n'è fatto pur uno: priegovi che voi, che n'avete tanti sofferti, m'insegniate sofferire il mio uno».
Lo re si vergognò molto e cominciò a vendicare li suoi e a non volere più sofferire.
‘D'una campana che s'ordinò al tempo del re Giovanni’
Al tempo del re Giovanni d'Acri fue in Acri ordinata una campana che, chiunque ricevea un gran torto, sì l'andava a sonare. Il re ragunava i savi a ciò ordinati, acciò che ragione fosse fatta.
Avenne, ché·lla campana era molto tempo durata, che la fune per la piova era venuta meno: sicché una vitalba v'era legata.
Or avenne che uno cavaliere d'Acri avea uno suo nobile destriere lo quale era invecchiato sì, che sua bontà era tutta venuta meno: sicché il cavaliere, per non darli mangiare, il lasciava andar per la terra. Lo cavallo, per la fame andando, trovò quella vitalba ch'era posta per fune; agiunse con la bocca aquella vitalba per rodegarla. Tirando, la campana sonò. Li giudici si adunaro e videro la petizione del cavallo, che parea che domandasse ragione. Giudicaro che 'l cavaliere, cui elli avea servito da giovane, il pascesse da vecchio. Il re il costrinse e comandò, sotto gran pena.
‘Qui conta d'una grazia che lo 'mperadore fece a un suo barone’
Lo 'mperadore donò una grazia a un suo barone: che qualunque uomo passasse per sua terra, che·lli togliesse d'ogni magagna evidente uno danaio di passaggio. Il barone mise alla porta un suo passaggere a ricogliere il passaggio. Un giorno avenne che uno ch'avea pure uno piede venne alla porta.
Il pedaggere li domandò un danaio; quelli si contese, azzuffandosi con lui. Il pedaggere il prese; que' difendendosi trasse fuori un suo moncolino, c'avea meno l'una mano. Allora il pedaggere il vide; disse:
«Tu me ne darai due: l'uno per la mano e l'altro per lo piede».
Allora furono alla zuffa: il capello li andò di capo: quelli avea meno l'uno occhio. Disse il pedaggere:
«Tu mi ne darai tre».
Pigliarsi a' capelli: lo passagger li puose mano in capo: quelli era tignoso. Disse lo passagier:
«Tu mi ne darai or quattro»; e convenne, quegli che sanza lite potea passare per uno, pagasse quattro.
‘Qui conta come il piovano Porcellino fu accusato’
Uno piovano, il quale avea nome il piovano Porcellino, al tempo del vescovo Mangiadore fu acusato dinanzi dal vescovo ch'elli guidava male la pieve per cagione di femine. Il vescovo, facendo sopra lui inquisizione, trovollo molto colpevole; e, stando in vescovado attendendo d'essere l'altro dì disposto, la famiglia, volendoli bene, l'insegnaro campare: nascoserlo la notte sotto il letto del vescovo.
E in quella notte il vescovo v'avea fatto venire una sua amica; et essendo entro il letto, volendola toccare, l'amica non si lasciava, dicendo:
«Molte impromesse m'avete fatte, e non me ne attenete neente».
Il vescovo rispose:
«Vita mia, io lo ti prometto e giuro».
«Non» disse quella: «io voglio li danari in mano»; e 'l vescovo, levandosi del letto, andava pe' danari, per donarli all'amica.
Il piovano uscì di sotto il letto e disse:
«Messere, a cotesto colgono ell'e me. Or chi potrebbe fare altro?»
Il vescovo si vergognò e perdonogli, ma molte minacce li fece dinanzi alli altri cherici.
‘Qui conta una novella d'uno uomo di corte ch'avea nome Marco’
Marco Lombardo, uomo di corto savissimo più che niuno di suo mistiere fosse mai, fu un dì domandato da un povero orrevole uomo e leggiadro, il quale prendea danari in sagreto da buona gente, ma non prendea robe. Era a guisa di morditore, et avea nome Pagolino; fece a Marco una così fatta questione, credendo che Marco non vi potesse rispondere:
«Marco» disse elli, «tu se' lo più savio uomo di tutta Italia, e se' povero e disdegni lo chiedere. Perché non ti provedestu sì che tu fossi sì ricco, che non ti bisognasse disdegnare di chiedere?»
E Marco si volse d'intorno e poi parlò e disse così:
«Altri non vede ora noi e non ci ode. Or tu com'hai fatto?»
E 'l morditore rispuose:
«Ho fatto sì, ch'io sono povero».
E Marco disse:
«Tiello credenza tu a me, et io a te».
‘Qui conta come uno della Marca andò a studiare a Bologna’
Uno della Marca andoe a studiare a Bologna. Vennerli meno le spese. Piangea. Un altro il vide e seppe perché piangea. Disseli così:
«Io ti fornirò lo studio, e tu mi prometterai che tu mi dara' mille livre al primo piato che tue vincerai».
Lo scolaio studiò e tornò in sua terra. Quelli li tenne dietro per lo prezzo.
Lo scolaio, per paura di dare il prezzo, si stava e non avogadava, e così avea perduto l'uno e l'altro: l'uno il senno e l'altro i danari.
Or che pensò quelli de' danari? Richiamossi di lui e dielli un libello de duemilia livre, e disseli così:
«O vuogli perdere o vuogli vincere. Istue vinci, tu mi pagherai la promessione; e stu perdi, tu m'adimpierai il libello».
Allora lo scolaio il pagò e non volle piatire con lui.
‘Qui conta di madonna Agnesina di Bologna’
Madonna Agnesina da Bologna, istando un giorno in una corte da sollazzo (et era donna dell'altre, intra le quali aveva una sposa novella, alla quale voleano fare dire com'ella fece la prima notte), cominciossi monna Agnesina alle più sfacciate, e domandò prima loro. L'una dicea:
«Io il presi ad ambo mani»; e l'altra dicea in altro sfacciato modo.
Domandò la sposa novella.
«E tu come facesti?»
E quella disse molto vergognosamente, cogli occhi chinati:
«Io il presi pur colle due dita».
Allora monna Agnesina rispuose e disse:
«Deh, cagiù ti foss'ello!»
‘Qui conta di messer Beriuolo cavaliere di corte’
Uno cavaliere di corte, ch'ebbe nome messere Beriuolo, era in Genova. Venne a rampogne con uno donzello. Quello donzello li fece la fica quasi infino all'occhio, dicendoli villania.
Messere Branca Doria il vidde: seppeli reo; venne aquello cavaliere di corte e confortollo che rispondesse e facesse la fica a colui che la facea lui.
«Maidio» disse quello «non farò io: ch'io non li farei una delle mie per cento delle sue».
‘Qui conta d'uno gran gentile uomo che lo 'mperadore fece impendere’
Federigo imperadore fece impendere uno giorno un uomo di gran lignaggio per certo misfatto; e, per fare più rilucere la giustizia, sì 'l facea guardare ad un gran cavaliere con comandamento grande di gran pena che no·llo lasciasse spiccare, sì che, non guardando bene questo cavaliere, lo 'mpiccato fu portato via; sì che, quando quelli se n'avide, sì se consigliò per sé medesimo, per paura di perdere la testa. Et istando così pensoso, in quella notte si mosse ad andare ad una badia ch'era ivi presso, per sapere se potesse trovare alcuno corpo novellamente morto e potesselo trarre del sepolcro e metterlo alle forche in colui scambio.
Giunto alla badia la notte medexima, sì vi trovò una donna in pianto, scapigliata e scinta, forte lamentando, la quale era molto sconsolata e piangea uno suo caro marito lo quale era morto lo giorno. Allora il cavaliere dolcemente le parlò e disse:
«Madonna, che modo è questo? E perché 'l fate?»
La donna li rispuose:
«Per ciò ch'io tanto l'amava, ch'io mai non voglio essere più consolata, ma in pianto voglio finire li miei dì».
Allora il cavaliere le disse:
«Madonna, che savere è questo? Volete voi morire qui di dolore, che per pianto né per lagrime non si può recare a vita il corpo morto? Onde, che mattezza è quella che voi fate? Ma fate così: prendete me a marito, che non ho donna, e campatemi la persona: però ch'io ne sono in periglio, e non so là dov'io mi nasconda: ché io per comandamento del mio signore guardava un cavaliere impenduto per la gola; li uomini di suo lignaggio il m'hanno tolto; insegnatemi campare, ché potete, et io sarò vostro marito, e terrovi onorevolmente».
Allora la donna, udendo questo, innamorò di questo cavaliere e disse:
«Io farò ciò che voi mi comanderete, tant'è l'amore ch'io vi porto. Prendiamo questo mio marito, e traiallo fuori della sepultura et impicchiallo in luogo di quello che v'è tolto»;
e lasciò suo pianto, et atò trarre il marito del sepulcro, et atollo impendere per la gola così morto.
E 'l cavaliere disse:
«Madonna, elli avea meno un dente della bocca: ond'i' ho paura, s'alcuno ci rivenisse per rivederlo, ch'io non ne ricevesse grande disnore, et ancora la morte».
Quella, udendo questo, sì li ruppe un dente dinanzi; e, s'altro vi fosse bisognato a quel fatto, sì l'avrebbe fatto.
Allora il cavaliere, veggendo quello che la donna ne avea fatto di suo marito, disse:
«Madonna, sì come poco v'è caluto di costui, che mostravate di tanto amarlo, così vi carebbe vie meno di me».
Allora si partì da·llei, et andossi per li fatti suoi; et ella rimase co·lla vergogna.
‘Qui conta come Carlo Magno amò per amore’
Carlo, nobile re di Cicilia e di Gerusalem, quando era conte d'Angiò sì amò per amore la bella contessa di Ceti, la quale amava medesimamente il conte d'Universa.
In quel tempo, il re di Francia avea difeso sotto pena del cuore e dell'avere che neuno atorneasse. Il conte d'Angiò, volendo provare qual meglio valesse d'arme tra·llui e 'l conte d'Universa, sì si provide, e fu con grandissime pregherie a messer Alardo di Valleri e manifestolli dove elli amava e cui, e com'elli era appensato al postutto di provare in campo col conte d'Universa, pregandolo per amore che accattasse parola dal re di guisa che un solo torneamento fedisse con sua licenzia. Quelli domandando cagione, il conte d'Angiò l'insegnò in questa guisa:
«Il re si è quasi beghino, e per la grande bontade di vostra persona elli spera di prendere e di fare prendere a voi drappi di religione per avere la vostra compagnia. Onde, in questa domanda, sia per voi chesto in grazia che uno solo torneamento lasci ferire, e voi farete quanto che a·llui piacerà».
E messere Alardo rispuose:
«Or mi di', conte: e perderò io la compagnia de' cavalieri per uno torneamento?»
E 'l conte d'Angiò rispuose:
«Io v'imprometto lealmente ch'io ve ne deliberrò»; e sì fece elli, in tal maniera come io vi conterò.
Messer Alardo se n'andò al re di Francia e disseli:
«Messere, quand'io presi arme il giorno del vostro coronamento, in quel giorno grande quantitade de' migliori cavalieri del mondo portarono arme: onde io per amore di voi volendo in tutto lasciare il mondo e vestirmi di drappi di religione, piaccia a voi di donarmi una nobile grazia, cioè che un torniamento feggia, là ove s'armi la nobiltà de' cavalieri, sì che·lle mie armi si lascino in così grande festa com'elle si presero».
Allora il re l'otroioe. Ordinossi un torniamento: dall'una parte fu il conte d'Universa e dall'altra il conte d'Angioe. La reina di Francia e l'altre, contesse e dame e damigelle di gran paraggio, fuoro alle logge; e la contessa di Ceti vi fue. In quel giorno portaro arme li fiori de' cavalieri e da una parte e dall'altra.
Dopo molto torneare, il conte d'Angioe e 'l conte d'Universa fecero diliverare l'aringo e l'uno incontra l'altro si mosse, alla forza de' poderosi destrieri, con grosse aste in mano.
Or avenne che nel mezzo dell'aringo il destriere del conte d'Universa cadde con tutto lo conte in un monte: onde le dame discesero delle logge e portarlone a braccia molto soavemente; e la contessa di Ceti vi fue. Il conte d'Angiò si biastemava forte dicendo:
«Lasso! perché non cadde mio cavallo come quello del conte d'Universa, che la contessa mi fosse tanto di presso quanto fu a·llui!»
Partito il torneamento, il conte d'Angiò fu alla reina di Francia e chiesele mercede ch'ella, per amore de' nobili cavalieri di Francia, dovesse mostrare cruccio al re, e poi nella pace li adomandasse un dono, e 'l dono fosse di questa maniera: che al re dovesse piacere che ' giovani cavalieri di Francia non perdessero sì nobile compagnia com'era quella di messere Alardo di Valleri.
La reina così fece tutto: fece cruccio col re e nella pace li adomandoe lo dono, e lo re lel promise. Allora fu diliberato messer Alardo di ciò ch'avea promesso, e rimase co·lle oneraveli armi colli altri prodi cavalieri del reame di Francia, torneando e facendo d'arme, sì come la rinomea per lo mondo corre, sovente, di grande bontade e d'oltramaravigliose prodezze.
‘Qui conta di Socrate filosafo come rispuose a' Greci’
Socrate fue nobile filosofo di Roma; et al suo tempo mandaro i Greci grandissima e nobile ambasceria a' Romani; e la forma della loro ambasciata si fu per difendere lo tributo dalli Romani, che davano loro per via di ragione; e fue loro così imposto dal Soldano:
«Andrete et userete ragione; e, se vi bisogna, userete moneta».
Li ambasciadori giunsero a Roma; propuoser la forma della loro ambasciata; nel Consiglio di Roma si provide, la risposta della domanda de' Greci, che si dovesse fare per Socrate filosofo, sanza neuno altro tenore, riformando il Consiglio che Roma stesse a·cciò che per Socrate fosse risposto.
Li ambasciadori andaro là dove Socrate abitava, molto di lungi da Roma, per opporre le loro ragioni dinanzi da lui. Giunsero alla casa sua, la quale era non di gran vista; trovaro lui che cogliea erbette. Avisarlo dalla lunga. L'uomo parve loro di non gran parenza. Parlaro insieme. Considerante tutte le soprascritte cose, e' dissero intra loro:
«Di costui avremo noi grande mercato»: acciò che sembiava loro anzi povero che ricco.
Giunsero e salutarlo:
«Dio ti salvi, uomo di grande sapienzia: la quale non può essere piccola, poi che ' Romani t'hanno commessa così alta risposta!»
Mostrarli la riformagione di Roma e dissero a·llui:
«Proporremo dinanzi da te le nostre ragionevoli ragioni, le quali sono molte; e 'l senno tuo provederà il nostro diritto. E sappiate che siamo a ricco signore: prenderai questi perperi, i quali sono grandissima quantità (et appo 'l nostro signore è troppo piccola), et a·tte può essere molto utile».
E Socrate parlò alli ambasciadori e disse:
«Voi pranzerete inanzi, e poi intenderemo alle nostre bisogne».
Tennero lo 'nvito e pranzar assai cattivamente, con non molto rilievo. Dopo 'l pranzo parlò Socrate alli ambasciadori e disse:
«Segnori, quale è meglio tra una cosa o due?».
Li ambasciadori rispuosero:
«Le due».
E que' disse:
«Or andate et obedite a' Romani colle persone: ché se 'l Comune di Roma avrà le persone de' Greci, bene avrà le persone e l'avere; e, s'io togliesse l'oro, i Romani perderebbero la loro intenzione».
Allora i savi ambasciadori si partiro dal filosafo assai vergognosi, et ubbidiro a' Romani.
‘Qui conta una novella di messer Ruberto’
Ariminimonte si è in Borgogna; et havvi un sire che si chiama messer Ruberto; et è contado grande. La contessa Antica e sue camariere sì aveano un portiere milenso, et era molto grande della persona, et avea nome Baligante. L'una delle cameriere cominciò a giacere co·llui, poi il manifestò a l'altra, e così andoe infino alla contessa. Sentendo la contessa ch'elli era a gran misura, giacque con lui.
Il sire lo spiò; fecelo amazzare, e del cuore fe' fare una torta e presentolla alla contessa; et ella e le sue camariere ne mangiarono.
Dopo il mangiare venne il sire a doneiare e domandò:
«Chente fu la torta?».
Tutte rispuosero:
«Buona».
Allora rispuose il sire:
«Ciò non è maraviglia, ché Baligante vi piacea vivo, quando v'è piaciuto alla morte».
La contessa, quand'ella intese il fatto, ella e le donne e le camariere si vergognaro e videro bene ch'elle aveano perduto l'onore del mondo. Arrendérsi monache e fecero un monistero che si chiama il monistero delle nonane d'Ariminimonte.
La casa crebbe assai, e divenne molto ricca; e questo si conta, in novella ch'è vera, che v'è questo costume: che quando elli vi passasse alcuno gentile uomo con molti arnesi, et elle il faceano invitare ad ostello e facea·lli grandissimo onore. La badessa e le suore li veniano incontro in su lo donneare: «quella monaca ch'è più isguardata, quella lo serva et acompagnilo a tavola et a letto». La mattina sì si levava e trovavali l'acqua e la tovaglia; e, quando era lavato, et ella li aparecchiava un ago voto et un filo di seta, e convenia che, s'elli si voleva affibbiare da mano, ch'elli medesimo mettesse lo filo nella cruna dell'ago; e se alle tre volte ch'egli avisasse no 'l vi mettesse, sì li toglieano le donne tutto suo arnese e non li rendeano neente; e se metteva il filo, alle tre, nell'ago, sì li rendeano gli arnesi suoi e donavangli di belli gioelli.
‘Qui conta del buono re Meliadus e del Cavaliere Sanza Paura’
Il buono re Meliadus e 'l Cavaliere Sanza Paura si erano nemici mortali in campo. Andando un giorno questo Cavaliere Sanza Paura a guisa d'errante cavaliere disconosciutamente, trovò suoi sergenti, che molto l'amavano, ma non lo conosceano, e dissero a lui:
«Dinne, cavaliere errante, in fede di cavalleria: qual è miglior cavaliere tra 'l buon Cavaliere Sanza Paura o 'l buono re Meliadus?».
E 'l cavaliere rispuose e disse:
«Se Dio mi dea buona ventura, lo re Meliadus è 'l miglior cavaliere che in sella cavalchi».
Allora li sergenti, che voleano male al re Meliadus per amore di lor signore, e disamavanlo mortalmente, sì sorpresero questo lor signore a tragione, sì che non si difese e, così armato com'era, lo levaro da distriere e miserlo attraverso d'uno ronzino, e comunemente diceano che 'l menavano a impendere.
Così tenendo lor camino, trovaro il re Meliadus ch'andava a un torneamento, altressì a guisa di cavaliere errante e sue arme coverte. E' domandò questi sergenti:
«Perché menate voi a 'mpendere questo cavaliere? E chi ‘è’ elli, che cosìe lo disonorate villanamente?».
Li sergenti rispuosero:
«Elli hae bene morte servita; e se voi il sapeste come ‘noi’, voi il menereste assai più tosto di noi. Adomandatelo di suo misfatto!».
E 'l re Meliadus si trasse avante e disse:
«Cavaliere, che ha' tu misfatto a questi sergenti, che ti menano così laidamente?».
E 'l cavaliere rispuose:
«Niuna altra cosa hoe misfatto, se non ch'io volea mettere il vero avante».
«Come è ciò?» disse il re Meliadus. «Ciò non può essere! Contatemi pui vostro misfatto».
Et elli rispuose:
«Sire, volentieri. Io sì tenea mio cammino a guisa d'errante cavaliere. Trovai questi sergenti dimandandomi in fe' di cavaleria ch'io dicesse qual era miglior cavaliere tra 'l buon re Meliadus o 'l Cavaliere Sanza Paura; et io, per mettere il vero avante, dissi che 'l re Meliadus era migliore: e no 'l dissi più che per verità dire, ancora che 'l re Meliadus sia mio mortale nemico in campo, e mortalmente il disamo. Io non volea mentire: altro non ho misfatto; e però solamente mi fanno onta questi sergenti».
Allora il re Meliadus cominciò ad abattere i sergenti e fecelo disciogliere e donolli un ricco cavallo co·lla transegna coperta, e pregollo che non la discoprisse insino a suo ostello; e partirosi da lui.
La sera giunse lo Cavaliere Sanza Paura all'ostello; levò la coverta della sella; trovò l'arme del re Meliadus, che·lli avea fatta sì bella deliberanza, e donatogli: et era suo mortale nemico.
‘Qui conta d'una novella che avenne in Proenza alla Corte del Po’
Alla corte del Po di Nostra Dama in Proenza s'ordinoe una nobile corte quando il conte Ramondo fece il figliuolo cavaliere: sì invitoe tutta la buona gente, e tanta ve ne venne per amore, che le robe e l'argento fallìo, e convenne ch'e' disvestisse de' cavalieri di sua terra; e donava a' cavalieri di corte. Tali rinunziaro, e tali consentiero.
In quello giorno ordinaro la festa. E poneasi uno sparviere di muda in su una asta: or venia chi si sentìa sì poderoso d'avere e di coraggio, e levavasi il detto sparvier in pugno; e quel cotale convenìa che fornisse la corte in quell'anno. I cavalieri e ' donzelli, ch'erano giulivi e gai, si faceano di belle canzoni e 'l suono e 'l motto; e quattro approvatori erano stabiliti, che quelle ch'aveano valore faceano mettere in conto e, l'altre, diceano a chi l'avesse fatte che le migliorasse. Or dimorarono, e diceano molto bene di lor signore, et i loro figliuoli fuoro nobili cavalieri e ben costumati.
Ora avenne che uno di que' cavalieri (pognamli nome messer Alamanno), uomo di gran prodezza e di grande bontade, amava una molto bella donna di Proenza, la quale avea nome madonna Grigia; et amavala sì celatamente, che neuno lile potea fare palesare. Avenne che ' donzelli del Po si puosero insieme d'ingannarlo e di farlone vantare. Dissero così con certi baroni e cavalieri:
«Al primo torneare che si farae, vi preghiamo che voi stabiliate che la gente si vanti».
E pensaro così: «Messer cotale si è prodissimo d'arme; farae bene quel giorno del torneamento e scalderassi d'allegrezza. I cavalieri si vanteranno, et elli non si potrae tenere che non si vanti di sua dama».
Così ordinato, così fatto: il torneamento fue fatto; fedìo il cavaliere; ebbe il pregio dell'arme; scaldossi d'allegrezza.
Nel riposare, la sera, e ' cavalieri si cominciaro a vantare, in sull'allegrezze loro, chi di bella giostra, chi di bello castello, chi di bello astore, chi di ricca ventura; e 'l cavaliere non si poteo tenere che non si vantasse ch'amava sì bella donna.
Ora avenne ch'e' ritornò per prendere gioia di lei, sì come solea. La donna li donoe commiato.
E 'l cavaliere sbigottìo tutto, e partissi da lei e dalla compagnia de' cavalieri, et andonne in una foresta e rinchiusesi in uno romitaggio sì celatamente, che neuno il sapea.
Or, chi avesse veduto il cruccio de' cavalieri del Po e delle donne e delle donzelle che si lamentavano sovente della perdita di così nobile cavaliere, assai n'avrebbe avuto pietà.
Un giorno avenne che i donzelli del Po smarriro una caccia e capitaro a·romitaggio dov'era il cavaliere rinchiuso. Domandolli se fossoro del Po, et elli dissero di sì; et elli domandò di novelle, e ' donzelli li presero a contare come al Po avea laide novelle: che per picciolo misfatto elli aveano perduto il fiore de' cavalieri, quello che pregio avea tutto, e che sua donna li avea dato commiato, e che neuno uomo non sapea che ne fosse adivenuto. Ma procianamente un torneamento era gridato, in dove sarà molta buona gente: onde noi pensiamo (ch'elli hae sì gentil cuore) che, in qualunque parte elli sarae, elli verrae a torneare con noi; e noi avemo guardie ordinate di gran podere e di gran conoscenza, che l'arresteranno imantenente, e così speriamo di riguadagnare nostra grande perdita».
Allora il romito scrisse a uno suo amico sacreto che al giorno del torneamento li tramettesse arm'e cavagli secretamente, e rinvioe i donzelli.
E l'amico fornìo la sua richiesta: ché al giorno del torneamento li mandò l'arme et i cavagli.
Si fue il giorno nella pressa de' cavalieri; il romito ebbe da tutte parti il pregio del torneamento.
Le guardie l'ebbero veduto; avisarlo; et incontanente il levaro in palma di mano a gran festa. La gente, rallegrandosi, abatterli la ventaglia dell'elmo dinanzi dal viso e pregarlo per amore che cantasse; et elli rispuose:
«Io non canteroe mai s'io non ho pace da mia donna».
I nobili cavalieri si lasciarono ire alla donna e richieserle in gran pregheria che li facesse perdono. La donna rispuose:
«Diteli così: ch'io non li perdonerò giamai se non mi fae gridare merzé a cento baroni et a cento cavalieri et a cento donne et a cento donzelle, che tutti gridino a una boce merzé e non sappiano a cui la si chiedere».
Allora il cavaliere, il quale era di grande savere, si pensò che s'aproximava la festa della candellara, che si facea gran festa al Po di Nostra Dama, là ove la buona gente venia al mostier. Si pensò:
«Mia dama vi sarae, e saravvi tanta della buona gente quant'ella adomanda che le chieggia merzede».
Allora trovoe una molto bella canzonetta, e la mattina per tempo salìo in sue lo pergamo. La gente si meraviglioe molto; e quelli cominciò questa sua canzonetta tanto soavemente quanto seppe il meglio, ché molto il sapea bene fare. E la canzonetta dicea in cotal maniera:
Allora tutta la gente della chiesa gridaron mercé, e perdonolli la donna e ritornoe in sua grazia, com'era di prima.
‘Qui conta della reina Ysotta e di messer Tristano di Leonis’
Amando messer Tristano di Cornovaglia Ysotta la bionda, la moglie del re Marco, si fecero tra loro un segnale d'amore di cotal guisa: che quando messere Tristano le volea parlare, si andava ad un giardino del re Marco, nel quale avea una fontana, e intorbidava il rigagnolo ch'ella facea, il quale passava per lo palazzo dove stava la detta Ysotta; e quando ella vedea l'acqua torbidata, si pensava che Tristano era alla fontana.
Or avenne c'uno malaventurato giardiniere se n'avide, di guisa che li due amanti neente il poteano credere. Quel giardiniere andò allo re Marco, e contolli ogni cosa com'era.
Lo re Marco si diede a crederlo; sì ordinò una caccia, e partissi da' suoi cavalieri siccome si smarisse da·lloro. Li cavalieri lo cercavano erranti per la foresta, e lo re Marco n'andò in sul pino ch'era sopra la fontana ove messere Tristano parlava alla reina.
E, dimorando la notte lo re Marco in sul pino, e messere Tristano venne alla fontana e intorbidolla; e poco tardante la reina venne alla fontana, ed a ventura le venne un bel pensero: che guardò il pino, e vide l'ombra più spessa che non solea. Allora la reina dottò e, dottando, ristette, e parlò con Tristano in questa maniera e disse:
«Disleale cavaliere, io t'ho fatto qui venire per potermi compiagnere di tuo gran misfatto: ché giamai non fu cavalier con tanta dislealtade quanta tu hai per tue parole: ché m'hai unita, e lo tuo zio re Marco, che molto t'amava: ché tu se' ito parlando di me intra·lli erranti cavalieri cose, che nello mio cuore non poriano mai discendere; — et inanzi darei me medesima al fuoco, ch'io unisse così nobile re com'è monsignor lo re Marco. Onde io ti diffido di tutta mia forza, siccome disleale cavaliere, sanza niun'altro rispetto».
Tristano, udendo queste parole, dubitò forte e disse:
«Madonna, se ' malvagi cavalieri di Cornovaglia parlan di me, tutto primamente dico che giamai io di queste cose non fui colpevole. Merzé, donna, per Dio: elli hanno invidia di me, ch'io giamai non dissi né feci cosa che fosse disinore di voi, né del mio zio re Marco. Ma, dacché vi pur piace, ubbidirò a' vostri comandamenti: andronne in altre parti a finire li miei giorni. E forse, avanti ch'io mora, li malvagi cavalieri di Cornovaglia avranno sofratta di me, siccome elli ebbero al tempo de l'Amoroldo, quand'io diliverai loro e lor terre di vile e di laido servaggio».
Allora si dipartiro, sanza più dire; e lo re Marco, ch'era sopra loro, quando udì questo, molto si rallegrò di grande allegrezza.
Quando venne la mattina, Tristano fe' sembianti di cavalcare: fe' ferrare cavalli e somieri; valletti vegnono di giù e di sù: chi ponta freni e chi selle: il tremuoto era grande.
Il re s'adira forte del partire di Tristano, e raunò ' baroni e ' suoi cavalieri, e mandò comandando a Tristano che, sotto pena del cuore, non si partisse sanza suo commiato. Tanto ordinò il re Marco, che·lla reina ordinò e mandolli a dire che non si partisse: — e così rimase Tristano a quel punto, e non si partì. E non fu sorpreso né ingannato per lo savio avedimento ch'ebbero intra·llor due.
Ora venne che uno malvagio cavaliere si n'avidde e contollo a lo re Marco. Lo re diede lo cuore a credere. Ordinò una caccia. Partisi dalli cavalieri, et ismarisi da loro. Li cavalieri lo cercavano per la foresta. Lo re tornò: montò su·n uno pino ch'era sopra quella fontana là ove messer Tristano le parlava. Essendo lo re su‘l’ pino di notte, e messer Tristano venne a la fontana et intorbidò l'acqua, e riguardò al palazzo che Ysotta venisse. Vidde l'ombra dello re sue lo pino; pensosi quello ch'era. Ysotta venne alla finestra; Tristano li fece cenno verso lo pino; Ysotta si·nde avidde, e mesere Tristano disse cosìe:
«Madonna, voi mandaste per me. Malvo‘le’ntieri ci sono venuto, per molte parole che dette sono di voi e di me. Pregovi quanto posso per nostro onore che voi non mandiate più per me: non perch'io rifiuti di fare cosa che onore vi sia, ma dicolo per fare rimanere mentitori li malvagi, che per invidia non finano di male dire».
La reina parlò e disse:
«Malvagio cavaliere disleale, io t'hoe fatto qui venire per potermi compiagnere a te medesimo dello tuo grande malfatto: ché giamai non fu cavaliere con tanta dislieltade quanto tu se', che, per tuoi parole, hai unito tuo zio lo re Marco e me: ché se' ito vantando tra·lli cavalieri erranti di cose, che in nel mio cuore non potréno mai discendere. Onde io ti diffido di tutta mia forza, sanza alcuno altro rispetto, sì come disleale cavaliere».
Allora messer Tristano disse:
«Se·lli malvagi cavalieri di Cornuaglia parlano di me in questa maniera, io vi dico che giamai Tristano di ciò non fue colpevole, né mai non dissi cosa che disinore fosse di mio zio né di voi. Ma, da che pure vi piace, ubidiroe lo vostro commandamento: andrò in altre parte a finire ' miei giorni: forse che inanzi che io moia li malvagi cavalieri di Cornuaglia aranno soffranta di me, sì come ebbero al tempo dello Amoraldo d'Irlanda, quando dilivrai loro e loro terra di vile e laido servaggio».
Allora si partìo senza più dire, quasi morendo d'allegrezza.
La mattina Tristano fece sembiante di cavalcare, e fae sellare cavalli e somieri. Valletti vanno di sù e di gi‘u’so, e chi aportava freni e chi selle: lo tramazzo era grande.
Allo re non piacea suo dipartimento, credendo che non fosse di Tristano e d'Ysotta quello che detto era. Ragunò li baroni, e mandò comandando a Tristano che non si partisse, a·ppena del cuore, sanza suo comandamento.
Tristano rimase: lo re ordinò tanto, che la reina mandoe a dire a Tristano che non si partisse; e così rimase Tristano, che non fue sopreso né inganato, per lo savio avedimento ch'ebbeno tra loro due.
‘Qui parla d'uno filosafo lo quale era chiamato Diogene’
Fue uno filosafo molto savio, lo quale avea nome Diogene. Questo filosafo si era un giorno bagnato in una troscia d'acqua, e stavasi in una grotta al sole asciugare. Alessandro di Macedonia passava con grande cavaleria; vide questo filosafo; parlò e disse:
«O divino di misera vita, chiedimi e darotti ciò che tu vorrai».
E 'l filosafo rispuose:
«Priegoti che mi ti lievi dal sole».
‘Qui conta di Papirio, come il padre lo menò al Consiglio’
Papirio fu romano, uomo potentissimo e savio e dilettissimo molto in battaglia; e credeansi i Romani difendersi da Alexandro confidandosi nella bontade di questo Papirio.
Quando Papirio era fanciullo, il padre lo menava seco al Consiglio. Un giorno il Consiglio si comandò credenza, e la sua madre lo stimulava molto, ché voleva sapere di che i Romani aveano tenuto consiglio. Papirio, veggendo la volontà della madre, si pensò una bella bugia e disse così:
«Li Romani tennero consiglio quale era meglio tra che li uomini avessero due mogli o le femine due mariti acciò che la gente multiplicasse, perché terre si rubellavano da Roma: onde il Consiglio stabilìo che meglio si potea sostenere e più convenevile era che l'uomo abbia due moglie».
La madre, che·lli avea promesso di tenere credenza, il manifestò a un'altra donna: così andoe d'una in altra, che tutta Roma il sentì.
Ragunarsi le donne et andarne a' Sanatori e doleansi molto, et elli temettero di maggior novità. Udendo la cagione, diedero cortesemente loro commiato, e commendaro Papirio di grande savere per innanzi.
E allora il Comune di Roma stabilìo che niuno padre dovesse menare suo figliuolo a consiglio.
‘D'una quistione che fece un giovane ad Aristotile’
Aristotile fue grande filosofo. Un giorno venne a·llui un giovane con una nuova domanda, dicendo così:
«Eh, maestro: i' ho veduto cosa che molto mi dispiace all'animo mio: ch'io vidi un vecchio di grandissimo tempo fare laide mattezze: onde, se la vecchiezza n'ha colpa, io m'accordo di voler morire giovane anziché invecchiare e matteggiare. Onde per Dio, maestro, metteteci consiglio, se essere può».
Aristotile rispuose:
«Io non posso consigliare che, invecchiando, la natura non muti in debolezza: il buono calore naturale se verrae meno, la virtù ragionevole è manca. Ma per la tua bella provedenza io t'aprenderò com'io potrò. Farai così: che, nella tua giovenezza, che tu usarai tutte le belle et oneste cose e le piacevoli, e dal lor contrario ti guarderai al postutto. Quando serai vecchio, non per natura né per ragione viverai con nettezza, ma per la tua bella, piacevole e lunga usanza ch'avrai fatta».
‘Qui conta della gran giustizia di Traiano imperadore’
Lo 'mperadore Traiano fue molto giustissimo signore. Andando un giorno con la sua grande cavalleria contra ' suoi nemici, una femina vedova li si fece dinanzi e preselo per la staffa e disse:
«Messere, fammi diritto di quelli c'a torto m'hanno morto lo mio figliuolo».
E lo 'mperadore rispuose e disse:
«Io ti sodisfarò quand'io tornarò».
Et ella disse:
«Se tu non torni?».
Et elli rispuose:
«Sodisfaratti lo mio successore».
Et ella disse:
«E se 'l tuo successore mi vien meno? Tu mi·n se' debitore. E pognamo che pure mi sodisfacesse: l'altrui giustizia non liberrà la tua colpa: bene averrae al tuo successore, s'elli liberrae sé medesimo».
Allora lo 'mperadore smontò da cavallo e fece giustizia di coloro ch'aveano morto il figliuolo di colei, e poi cavalcò e sconfisse i suoi nemici.
E dopo non molto tempo della sua morte venne il beato san Gregorio papa e, trovando la sua giustizia, andò alla statua sua e con lagrime l'onorò di gran lode e fecelo diseppellire: trovaro che tutto era tornato alla terra, salvo che l'ossa e la lingua; — e ciò dimostrava com'era suto giustissimo uomo e giustamente avea parlato.
E santo Grigoro orò per lui a Dio, e dicesi, per evidente miracolo, che per li preghi di questo santo papa l'anima di questo imperadore fu liberata dalle pene dell'inferno et andonne in vita eterna: et era stato pagano.
‘Qui conta d'Ercules come n'andò alla foresta’
Ercules fu uomo fortissimo oltre li altri uomini; et avea una sua moglie, la quale li dava molta travaglia.
Partisi un dì di subito, et andonne per una gran foresta, e trovava orsi e leoni et assai fiere pessime: tutte le squarciava et uccidea con la sua forza; e non trovò niuna bestia sì forte, che da lui si difendesse.
E' stette in questa foresta gran tempo; poi tornò a casa alla moglie co' panni tutti squarciati, con pelli di leoni a dosso. La moglie li si fece incontro con gran festa e cominciò a dire:
«Ben vegnate, il signor mio: che novelle?».
Et Ercules rispuose:
«Io vegno dalla foresta, e tutte le fiere ho trovate più umili di te: ché tutte quelle ch'i' ho trovate ho soggiogate, salvo che te: anzi, tu hai soggiogato me. Dunque se' tu la più forte cosa che io mai trovasse: ché hai vinto colui che tutte l'altre cose ha vinto».
‘Qui conta come Seneca consolò una donna a cui era morto uno suo figliuolo’
Volendo Seneca consolare una donna a cui era morto un suo figliuolo, sì come si legge in libro «Di Consolazione», disse cotali parole:
«Se tu fossi femina sì come l'altre, io non ti parlerei co m'io farò; ma però che tu·sse' femina et hai intelletto d'uomo, sì ti dirò così. Due donne furo in Roma: a ciascuna morì il figliuolo: l'uno era d'i cari figliuoli del mondo, e l'altro era vie più caro. L'una si diede a ricevere consolazione, e piacquele essere consolata; e l'altra si mise in uno canto della casa, e rifiutò ogni consolazione, e diessi tutta in pianto. Quale di queste due è il meglio? Se tu dirai quella che voll'essere consolata, dirai il vero. Dunque, perché piangi? Se mi di': «Piango il figliuolo mio perché la sua bontà mi facea onore», dico che non piangi lui ma piangi lo tuo danno e, piangendo lo tuo danno, piangi te medesima: et assai è laida cosa piangere altri se stesso. E se tu vuoli dire: «Il cuor mio piange perché tanto l'amava», non è vero che meno l'ami tu morto che quando era vivo. E se per amore fosse tuo pianto: perché nol piangevi tu quand'era vivo, sappiendo che dovea morire? Onde non ti scusare: to'·ti dal pianto! Se 'l tuo figliuolo è morto, altro non può essere. Morto è secondo natura, dunque per convenevole modo: lo quale è di necessitade a tutti».
E così consoloe colei.
Ancora si legge di Seneca ch'essendo maestro di Nerone sì·llo batteo quand'era giovane, come suo scolaio; e, quando Nerone fu fatto imperadore, ricordossi di Seneca, delle battiture che·lli avea date: sì·llo fece pigliare e giudicollo a morte. Ma cotanto li fece di grazia, che li disse:
«Aleggiti di che morte vogli morire»; e Seneca chiese di farsi aprire tutte le vene in un bagno caldo.
E la moglie sì 'l piangea e dicea:
«Deh, signor mio, che doglia m'è che tu muori sanza colpa!».
E Seneca rispuose:
«Meglio m'è ch'io moia sanza colpa che con colpa: così sarebbe dunque scusato colui che m'uccide a torto».
‘Qui conta come Cato si lamentava contra alla Ventura’
Cato filosofo, uomo grandissimo di Roma, stando in pregione e in povertade, parlava con la Ventura e doleasi molto e dicea:
«Perché m'hai tanto tolto?».
E poi si rispondea in luogo della Ventura e dicea così:
«Figliuolo mio, quanto dilicatamente t'hoe allevato e nodrito! E tutto ciò che m'hai chesto t'ho dato: la signoria di Roma t'ho data; signore t'ho fatto di molte dilizie, di gran palazzi, di molto oro, gran cavalli, molti arnesi. O figliuolo mio, perché ti ramarichi tue perch'io mi parta da te?».
E Cato rispondea:
«Sì ramarico».
E la Ventura parlava:
«Figliuolo mio, tu se' molto savio: or non pensi tu ch'i' ho figliuoli piccolini, li quali mi conviene nodricare? Vo' tu che io li abandoni? Non sarebbe ragione! Oi, quanti piccioli figliuoli ho a notricare! Figliuol mio, non posso star più teco. Non ti ramaricare, ch'io non t'ho tolto neente: ché ciò che tu hai perduto non era tuo: però che ciò che si può perdere non è propio, e ciò che non è propio non è tuo».
‘Come il Soldano, avendo mestiere di moneta, volle cogliere cagione a un giudeo’
Il Soldano, avendo mestiere di moneta, fo consigliato che cogliesse cagione ad uno ricco giudeo ch'era in sua terra, e poi gli togliesse il mobile suo, ch'era grande oltra numero. Il Soldano mandò per questo giudeo e domandollo qual fosse la migliore fede, pensando:
«S'elli dirà la giudea, io dirò ch'elli pecca contra la mia; e se dirà la saracina, et io dirò: «Dunque, perché tieni la giudea?».
E'l Giudeo, udendo la domanda del signore, rispuose così:
«Messere, elli fu un padre ch'avea tre figliuoli et avea un suo anello con una pietra preziosa, la migliore del mondo. Questi figliuoli, ciascuno pregava il padre ch'alla sua fine li lasciasse questo anello; e il padre, vedendo che catuno il volea, mandò per un fino orafo e disse:
»Maestro, fammi due anella così a punto come questo, e metti in ciascuno una pietra che asomigli aquesta«.
Lo maestro fece l'anella così a punto, che niuno conoscea il fine, altro che 'l padre. Mandò per li figliuoli ad uno ad uno, et a catuno diede il suo in secreto, e catuno si credette avere il fine: e niuno ne sapea il vero, altri che 'l padre loro. E così è delle fedi, messere: le fedi sono tre: il Padre che·lle diede sa la migliore, e li figliuoli (ciò siamo noi), ciascuno la si crede avere buona».
Allora il Soldano, udendo costui così riscuotersi, non seppe che si dire di coglierli cagioni: sì lo lasciò andare.
‘Qui conta una novella d'uno segnore c'avea un fedele’
Uno fedele d'uno signore, che tenea sua terra, essendo a una stagione i fichi novelli, il signore, passando per la contrada, vidde in su la cima d'un fico un bello fico maturo.
Fecelsi cogliere. Il fedele si pensò:
«Da che li piacciono, io li guarderò per lui».
Sì·ssi pensò d'imprunarlo e di guardarli. Quando furono maturi, sì gliene portoe una soma, credendo venire in sua grazia. Ma, quando li recò, la stagione era passata, che n'erano tanti, che quasi si davano a' porci.
Il segnore, vedendo questi fichi, sì·ssi tenne bene scornato, e comandò a' fanti suoi che 'l legassero e togliessero que' fichi e tutti li gittassero a uno a uno entro il volto.
E quando il fico li venia presso all'occhio, e quelli gridava:
«Domine, te lodo».
I fanti, per la nuova cosa, l'andaro a dire al signore, et egli il domandoe e disse:
«Perché di' tu così quando il fico ci viene presso a l'occhio?».
E quelli rispose:
«Messere, perch'io fui incorato di recare pesche: che s'io l'avesse recate, io sarei ora cieco».
Allora il signore incominciò a ridere e fecelo sciogliere, e vestire di nuovo, e donolli, per la nuova cosa ch'avea detta.
‘Qui conta come Domenedio s'acompagnò con uno giullare’
Domenedio s'acompagnò una volta con un giullare. Or venne un die che' si bandìe una corte di nozze, e' bandìsi uno ricco uomo ch'era morto. Disse il giullare:
«Io andrò alle nozze, e tu al morto».
Domenedio andò al morto e suscitollo, e guadagnò cento bisanti; il giullare andò alle nozze e satollossi. Redìo a casa, e trovò il compagno suo c'avea guadagnato. Feceli onore.
Quelli era digiuno; il giullare si fe' dare danari e comperò un grasso cavretto et arostillo, et arostendolo sì ne trasse li ernioni e mangiolli.
Quando il compagno l'ebbe innanzi, domandoe delli ernioni. Il giullare rispuose:
«E' non hanno ernioni, quelli di questo paese».
Or venne un'altra volta che anche si bandìo uno paio di nozze e un altro ricco uomo ch'era morto. E Iddio disse:
«Io voglio ora andare alle nozze, e tu vae al morto, et io t'insegnarò come tu il risusciterai: segnera'lo e comandera'li che si levi, ed elli si leverà; ma fatti fare l'impromessione dinanzi».
Disse il giullare:
«Be·llo farò».
Andò, e promise di suscitarlo. E' non si levò per suo segnare.
Il morto era figliuolo di gran signore; il padre s'adiroe veggendo che questi facea beffe; mandollo ad impendere per la gola.
Domenedio li si parò dinanzi e disse:
«Non temere, ch'io lo risusciterò. Ma dimmi in tua fe': chi mangiò li ernioni del cavretto?».
Il giullare rispuose:
«Per quel santo secolo dov'io debbo andare, compagno mio, ch'io non li mangiai!».
Domenedio, veggendo che non lile potea fare dire, increbbeli di lui. Andò e suscitò il morto; e questi fu delibero, ed ebbe la promessione che·lli era fatta. Tornaro a casa. Disse Domenedio:
«Compagno mio, io mi voglio partire da te, perché io non t'ho trovato leale com'io credeva».
Quelli, vedendo ch'altro non poteva essere, disse:
«Piacemi. Dividete, et io piglierò».
Domenedio fece tre parti d'i danari. Il giullare disse:
«Che fai? Noi non semo se non due».
Disse Domenedio:
«Ben è vero; ma quest'una parte sia di colui che mangiò li ernioni e, l'altre due, sia l'una tua e l'altra mia».
Allora disse il giullare:
«Per mia fede, da che tu di' così, ben ti dico che io li mangiai io: ché io sono di tanto tempo, ch'io non debbo ormai dir bugia».
E così si pruovano tali cose per danari, le quali dice l'uomo che non le direbbe per iscampare da morte a vita.
‘Qui conta della grande uccisione che fece il re Ricciardo’
Il buono re Ricciardo d'Inghilterra passò una volta oltre mare con baroni, conti e cavalieri prodi e valenti; e passaro in nave, sanza cavalli; et arrivoe nelle terre del Soldano. E così a piè ordinò sua battaglia: e fece d'i Saracini sì grande uccisione, che le balie de' fanciulli dicono, quand'elli piangono: «Ecco il re Ricciardo», acciò che come la morte fu temuto.
Dice che Saladino, veggendo fuggire la gente sua, domandò:
«Quanti cavalieri sono quelli che fanno questa uccisione?».
Fugli risposto:
«Messere, è solamente il re Ricciardo con sua gente, e sono tutti a piede».
Allora rispuose il Soldano e disse:
«Non voglia il mio Iddio che così valentre uomo sia a piede, come il re Ricciardo d'Inghilterra».
Sì prese uno nobile distriere e disse ‘a uno messaggio: «Me’naglile».
Il messaggio il menò e disse:
«Messere, il Soldano vi manda questo acciò che voi non siate a piede».
Lo re fu savio: fecevi montare sù uno suo scudiere acciò che 'l provasse. Il fante così fece. Il cavallo era nodrito: il fante non potendolo tenere neente, sì·ssi adirizzò verso il padiglione del Soldano a sua gran forza. Il Soldano aspettava il re Ricciardo, ma non li venne fatto.
E così nelli amichevoli modi de' nemici non si dee l'uomo fidare.
‘Qui conta di messere Rinieri da Montenero’
Messere Rinieri da Montenero, cavaliere di corte, sì passò in Sardigna, e stette col donno d'Alborea; et innamorovvi d'una sarda ch'era molto bella. Giacque con lei. Il marito li trovò. Non li offese, ma andossene dinanzi al donno e lamentossi forte.
Il signore amava questo sardo; mandò per messere Rinieri; disseli molte parole di gran minacce. E messere Rinieri, scusandosi, disse che mandasse per la donna e domandassela se ciò che fece fu altro che per amore.
Le gabbe non piacquero al signore: comandolli ch'elli sgombrasse il paese sotto pena della persona. Non avendolo ancora meritato di suo stallo, messere Rinieri disse:
«Messere, piacciavi di mandare in Pisa al siniscalco vostro che mi proveggia».
Il donno disse:
«Cotesto farò io bene»: feceli una lettera e dieglile.
Or giunse in Pisa e fu al detto siniscalco et, essendo con la nobile gente a tavola, contò il fatto com'era stato; poi die' questa lettera al siniscalco, la quale avea recata; e quelli la lesse, e trovò che·lli dovesse donare un paio di calze line a staffetta, cioè sanza peduli, e non altro. E, innanzi a tutti i cavalieri che v'erano, sì·lle volle. Avendole, ebbevi gran risa e sollazzo. Di ciò non s'adirò punto, perciò ch'era molto gentile cavaliere.
Or avenne ch'entrò in una barca con un suo cavallo e con un suo fante, e tornò in Sardigna. Un giorno, andando il donno a sollazzo con altri cavalieri (e messere Rinieri era grande della persona et avea le gambe lunghe et era su uno magro ronzino, et avea queste calze line in gamba), il donno il conobbe e con adiroso animo il fe' venire dinanzi da·ssé e disse:
«Che è ciò, messer Rinieri, che voi non siete partito di Sardigna?»
«Certo» disse messere Rinieri, «sì sono; ma io sono tornato per li scappini delle calze».
Stese le gambe, mostrò i piedi.
Allora il donno si rallegrò e rise e perdonolli, e donolli la roba ch'avea indosso e disse:
«Messere Rinieri bene hai saputo più che io non ti insegnai».
E que' disse:
«Messere, elli è al vostro onore».
‘Qui conta d'uno filosofo il qual era molto cortese di volgarizzare la scienzia’
Fue uno filosofo, lo quale era molto cortese di volgarizzare la scienzia a' signori, per cortesia, e ad altre genti. Una notte li venne in visione che li parea vedere le dee della scienzia a guisa di belle donne: e stavano al bordello e davansi a chi le volea. Et elli vedendo questo si maravigliò molto e disse:
«Che è questo? Non siete voi le dee della scienzia?»
Et elle rispuosero:
«Certo sì».
«Com'è ciò? Voi siete al bordello?»
Et elle rispuosero:
«Ben è vero: perché tu se' quelli che vi ci fai stare!»
Isvegliossi, e pensossi che volgarizzare la scienzia si era menomare la deitade. Ritràsesine e pentési fortemente. E sappiate che tutte le cose non sono licite a ogni persona.
‘Qui conta come un giulare adorava un signore’
E' fue un signore ch'avea un giullare in sua corte, e questo giullare l'adorava sì come un suo iddio, e chiamavalo Dio. Un altro giullare, vedendo questo, sì liene disse male, e disse:
«Or cui chiami tu Iddio? Elli non n'è no ma' un».
E quelli, a baldanza del signore, sì 'l batteo villanamente; e quelli così tristo, non potendosi difendere, andossene a richiamare al signore e disseli tutto il fatto. Il signor se ne fece gabbo. Quelli si partì, e stava molto tristo intra ' poveri, però che non ardiva di stare intra buone persone: sì l'avea quelli concio.
Or avenne che 'l signore fu di ciò molto ripreso, sì ch'elli propuose di dare commiato a questo suo giullare a modo di confini. Et avea cotale uso in sua corte: che, cui elli presentasse, sì·ssi intendea d'avere commiato da·llui e di partirsi fuori di sua corte. Or tolse il signor molti danari d'oro, e feceli mettere in una torta; e, quand'ella li venne dinanzi, sì·lla presentò a questo suo giullare e disse in fra sé:
«Da poi che li mi convien donare commiato, io voglio che sia ricco uomo».
Quando questo giullare vide la torta fu tristo. Pensossi e disse:
«I' ho mangiato: serberolla e darolla all'oste mia».
Andandone con essa all'albergo, trovò colui, cui elli avea così battuto, misero e cattivo. Presegline pietade: andò inverso lui e dielli quella torta. Quelli la prese: andossene con essa: ben fu ristorato di quello ch'ebbe da lui.
E tornando al signore per iscommiatarsi da lui, il signor disse:
«Or se' tu ancor qui? non avestu la torta?».
«Messer, sì ebbi».
«Or che ne facesti?»
«Messere, io avea allora mangiato: diedila a un povero giullare che mi diceva male perch'io vi chiamava mio Iddio».
Allora disse il signore:
«Va' con la mala ventura: ché bene è miglior il suo Iddio che 'l tuo»:
e disseli il fatto della torta.
Questo giullare si tenne morto: non sapea che si fare. Partissi dal signore e non ebbe nulla da·llui, et andò caendo colui a cui l'avea data. Non fu vero che mai lo trovasse.
‘Qui conta una novella che disse messer Migliore delli Abati di Firenze’
Messere Migliore delli Abati di Firenze siando in Cicilia al re Carlo per impetrare grazia che sue case non fossero disfatte (il cavaliere era molto bene costumato, e ben seppe cantare, e seppe il provenzale oltre misura bene proferere), cavalieri leggiadri di Cicilia fecero per amor di lui un grande corredo; et egli vi fue.
Or venne che furono levate le tavole; menarolo a donneare; mostrarli loro gioelli e loro camere e loro diletti, intra ' quali li mostrarono palle di rame stampate, nelle quali ardeano aloe et ambra; e del fumo che n'uscia oloravano le camere loro. In questo parlò messere Migliore e domandò:
«Questo che diletto vi rende? Ditelmi, per cortesia».
Fugli risposto:
«In quelle palle ardiamo ambra et aloe, onde le nostre donne e le camere sono odorifere».
Allora parlò messer Migliore e disse:
«Signori, male avete fatto: questo non è diletto».
Li cavalieri li fecero cerchio intorno domandando il perché; e, quand'elli li vide affisati a udire, e que' disse:
«Signori, ogni cosa tratta della sua natura, ma' tutta è perduta».
E que' domandaro come; ed elli disse che il fumo dell'aloe e dell'ambra dà loro perduto il buon odore naturale: ché la femina non vale neente, se di lei non viene come di luccio passato.
Allora i cavalieri di ciò cominciaro a fare gran sollazzo e gran festa, del parlare di messer Migliore.
‘Qui conta del consiglio che tennero i figliuoli del re Priamo di Troia’
Quando i figliuoli del re Priamo ebbero rifatta Troia (ché l'aveano i Greci disfatta; et avea‘n’ne menato — Talamone et Agamennon — la lor suora Esionam) e fecero li Troiani ragunanza di loro grande amistade, e' parlaro così in tra·lli amici:
«Be' signori, i Greci n'hanno fatta grande onta: la gente nostra uccisero, la città disfecero, nostra soro Ansionam ne menaro. E noi avemo rifatta la cittade e rafforzata; l'amistà nostra è grande; del tesoro avemo raunato assai: onde mandiamo a loro che ci facciano l'amenda e che ci rendano nostra soro Ansionam»: e questo parlò Parigi.
Allora il buono Hector, che passò in quel tempo di prodezza tutta la cavalleria del mondo, a quello tempo parlò così:
«Signori, la guerra non mi piace e non la consiglio, perché li Greci sono più poderosi di noi: e' sì hanno la prodezza, il tesoro, il sapere, sì che non siamo noi da poterci guerreggiare a loro, per la loro gran potenzia. E questo ch'io dico no 'l dico per viltade; ché, se la guerra sarae che non possa rimanere, io difenderò mia partita sì come un altro cavaliere, e portarò il peso della battaglia».
E questo è contra li arditi cominciatori.
Or la guerra pur fue: Hector fue nella battaglia coi Troiani insieme: elli era prode come un leone, et uccise di sua mano duomila cavalieri de' Greci. Hector uccidea li Greci e sostenea i Troiani e scampavali da morte. Ma pure, alla perfine, fu morto Hector, e i Troiani perdero ogni difensa, ché li arditi cominciatori vennero meno nelle loro arditezze, e Troia fu anche disfatta da' Greci, e soprastettero loro.
‘Qui conta come la damigella di Scalot morì per amore di Lancialotto del Lac’
Una figliuola d'un grande varvassore sì amò Lancialot del Lac oltre misura; ma elli non le volle donare suo amore imperciò ch'elli l'avea donato alla reina Ginevra. Tanto amò costei Lancialotto, ch'ella ne venne alla morte e comandò che, quando sua anima fosse partita dal corpo, che fosse arredata una ricca navicella coperta d'uno vermiglio sciamito, con uno ricco letto iv'entro con ricche e nobili coverture di seta, ornato di ricche pietre preziose: e fosse il suo corpo messo in su questo letto, vestita di suoi piue nobili vestimenti e con bella corona in capo, ricca di molto oro e di molte care pietre, e con ricca cintura e borsa; e in quella borsa avea una lettera, che era dello 'nfrascritto tenore. Ma imprima diciamo di ciò che v'ha innanzi la lettera.
La damigella morì di mal d'amore, e fu fatto ciò ch'ella avea detto della navicella: sanza vela e sanza remi e sanza neuno soprasagliente fue messa la detta nave colla donna in mare. Il mare la guidò infino a Camelot. Alla riva ristette. Il grido fu per la corte. I cavalieri e ' baroni dismontarono de' palazzi, e lo nobile re Artù vi venne: e maravigliavasi forte ch'era sanza niuna guida. Il re entrò dentro: vide la damigella e l'arnese. Fe' aprire la borsa; trovaro quella lettera; fecela leggere, e dicea così:
«A tutti i cavalieri della Tavola Ritonda manda salute questa damigella di Scalot, sì come alla migliore gente del mondo.
E se voi volete sapere perch'io a mia fine sono venuta, si è per lo migliore cavaliere del mondo e per lo più villano, cioè monsignore messer Lancialotto del Lac: ché già no 'l seppi tanto pregare d'amore ch'elli avesse di me mercede. E così, lassa, sono morta per ben amare, come voi potete vedere».
‘Come andando Cristo co' discepoli suoi videro molto grande tesoro’
Andando Cristo un giorno co' discepoli suoi per un foresto luogo, nel quale i discepoli che veniano dietro videro lucere da una parte piastre d'oro fine (onde essi chiamarono Cristo maravigliandosi perché non era ristato ad esso), sì li dissero:
«Signore, prendiamo quello oro: sì·nne consolerai di molte bisogne».
E Cristo si volse e ripreseli e disse:
«Voi adimandate quelle cose che toglie al nostro regno la più parte dell'anime che·ssi perdono; e che ciò sia vero, alla tornata ne vedrete l'asempro».
E passaro oltre.
Poco stante, due cari compagni lo trovaro, onde furono molto lieti; et in concordia andò l'uno alla più presso villa per menare uno mulo, e l'altro rimase a guardia. Ma udite opere ree che ne seguiro poscia, de' pensieri rei che 'l nemico diè loro. Quelli tornò col mulo e disse al compagno:
«Io ho mangiato alla villa, e tu dei aver fame. Mangia questi due pani così belli, e poi caricheremo».
Rispuose quelli:
«Io non ho gran talento di mangiare ora; e però carichiamo prima».
Allora presero a caricare e, quando ebbero presso che caricato, quelli ch'andò per lo mulo si chinò per legare la soma, e l'altro li corse di dietro a tradimento con uno apuntato coltello e ucciselo. Poscia prese l'uno di que' pani e diello al mulo, e l'altro mangiò elli. Il pane era atoscato: in pruova cadde morto elli e 'l mulo inanzi che movessero di quel luogo, e l'oro rimase libero come di prima.
E 'l Nostro Signore passò indi co' suoi discepoli nel detto giorno, e mostrò loro l'asempro che detto avea.
‘Come messere Azzolino fece bandire grande pietanza’
Messere Azzolino Romano fece una volta bandire nel suo distretto (et altrove ne fece invitata) che volea fare una grande limosina: e però tutti i poveri bisognosi, uomini come femine, et a certo die, fossero nel prato suo, et a catuno darebbe nuova gonnella e molto da mangiare.
La novella si sparse. Trasservi d'ogni parte.
Quando fu il die della ragunanza, i siniscalchi suoi furo tra·lloro con le gonnelle e con la vivanda, et a uno a uno li facea spogliare e scalzare tutto a ignudo, e poi li rivestia di panni nuovi e davali mangiare. Quelli rivoleano i loro istracciati, ma neente valse: ché tutti li mise in uno monte, e cacciovi entro fuoco. Poi vi trovò tanto oro e tanto ariento, che valse più che tutta la spesa; e poi li rimandò con Dio.
Et al suo tempo li si richiamò un villano d'un suo vicino che·lli avea imbolato ciriege. Comparìo l'accusato e disse:
«Mandate a sapere se ciò può essere: perciò che 'l ciriegio è finemente imprunato».
Allora messere Azzolino ne fece pruova, e l'accusatore condannò in quantità di moneta però che si fidò più nelli pruni che nella sua signoria, e l'altro diliberò.
Per tema della sua tirannia, li portoe una vecchia femina di villa un sacco di bellissime noci, alle quali non si ne trovavano simigliante. Et essendosi ella il meglio acconcia che poteo, giunse nella sala dov'elli era co' suoi cavalieri e disse:
«Messer, Dio vi dea lunga vita».
Et elli sospecciò e disse:
«Perché dicesti così?».
Et ella rispuose:
«Perché se ciò sia, noi staremo in lungo riposo».
E quelli rise e fecele mettere un bel sottano, il quale le dava a ginocchio, e fecelavi cignere su, e tutte le noci fece versare per lo smalto della sala e poi a una a una lile facea ricogliere e rimettere nel sacco; e poi la meritò grandemente.
In Lombardia e nella Marca si chiamano le pentole «ole». La sua famiglia avevano un dì preso un pentolaio per malleveria e, menandolo a giudice, messer Azzolino era nella sala. Disse:
«Chi è costui?».
L'uno rispuose:
«Messer, è un olaro».
«Andà·lo ad impendere».
«Come, messere, che è un olaro!».
«Et io però dico che voi l'andiate ad impendere!».
«Messere, noi diciamo ch'egli è un olaro!».
«Et ancor dico io che voi l'andiate ad impendere!».
Allora il giudice se n'accorse: fecelne inteso, ma non valse: ché, perché l'avea detto tre volte, convenne che fosse impeso.
A dire come fu temuto sarebbe gran tela: e molte persone il sanno. Ma sì rimanterrò come, essendo elli un giorno con lo 'mperadore a cavallo con tutta lor gente, si ingaggiaro chi avesse più bella spada. Sodo, lo 'mperadore trasse la sua del fodero, ch'era maravigliosamente fornita d'oro e di pietre. Allora disse messere Azzolino:
«Molto è bella, ma la mia è assai più bella»: e trassela fuori. Allora seicento cavalieri ch'erano con lui trassero tutti mano alle loro.
Quando lo 'mperadore vide le spade disse che ben era più bella.
Poi fu messer Azzolino preso in battaglia in uno luogo che si chiama Casciano; e percosse tanto il capo al feristo del padiglione, ov'era legato, che s'uccise.
‘Qui conta d'una grande carestia che fu a un tempo in Genova’
In Genova fu un tempo un gran caro, e là si trovava sempre più ribaldi che in niun'altra terra. Tolsero alquante galee, e tolsero conducitori, e pagarli, e mandaro bando che tutti li poveri andassero alla riva, et avrebbero del pane del Comune. Andarvene tanti, ch'è maraviglia; e ciò fu perché molti che non erano bisognosi si travisaro.
E li uficiali dissero così:
«Tutti qui e' non si potrebbero cernire: ma vadano li cittadini in su quello legno, e ' forestieri nell'altro, e le femine co' fanciulli in quelli altri»:
sicché tutti v'andaro suso.
I conducitori furo presti: diedero de' remi in acqua et apportarli in Sardigna, e lae li lasciaro, che v'era dovizia; et in Genova cessò il caro.
‘Qui conta d'uno ch'era bene fornito a dismisura’
Fu uno c'avea sì grande naturale, che non trovava neuno che fosse sì grande ad assai. Or avenne c'un giorno si trovò con una putta che non era molto giovane e, avegna che molto fosse orrevole e ricca, molti n'avea veduti e provati. Quando furo in camera, et elli lo mostrò; e per grande letizia la donna rise.
Que' disse:
«Che ve ne pare?».
E·lla donna rispose:
‘Come uno s'andò a confessare’
Uno s'andò a confessare al prete suo, et intra l'altre cose li disse:
«I' ho una mia cognata, e 'l mio fratello è lontano; e, quando io torno in casa, ella, per grande dimestichezza, mi si pur pone a sedere in grembo. Come debbo fare?».
Rispuose il prete:
«A me il si facesse ella! Ch'io la ne pagherei bene!».
‘Qui conta di messere Castellano da Cafferi di Mantova’
Messere Castellano da Cafferi di Mantova stando Podesta di Firenze, sì nacque una quistione tra messere Pepo Alamanni e messer Cante Caponsacchi, tale che ne furo a gran minacce: onde la Podesta, per cessare quella briga, si mandoe a' confini: messer Pepo mandò in certa parte e messer Cante, perché era grande suo amico, sì 'l mandò a Mantova, e raccomandollo a' suoi. E messere Cante li ne rendeo tal guiderdone, che si giacea con la moglie.
‘Qui conta d'un uomo di corte che cominciò una novella che non venia meno’
Brigata di cavalieri cenavano una sera in una gran casa fiorentina; et aveavi un uomo di corte, il quale era grandissimo favellatore. Quando ebbero cenato, cominciò una novella che non venia meno.
Uno donzello della casa, che servia e forse non era troppo satollo, lo chiamò per nome e disse:
«Quelli che t'insegnò cotesta novella non la t'insegnò tutta».
Et elli rispuose:
«Perché no?».
E que' disse:
«Perché non t'insegnò la ristata».
Onde quelli si vergognò e ristette.
‘Qui conta come lo 'mperadore Federigo uccise un suo falcone’
Lo 'mperadore Federigo andava una volta a falcone; et avevane uno molto sovrano, che l'avea caro più c'una cittade. Lasciollo a una grua. Quella montò alta. Il falcone si mise alto molto sopra lei. Videsi sotto un'aguglia giovane: percossela a terra, e tanto la tenne che l'uccise.
Lo 'mperadore corse credendo che fosse una grua; trovò com'era. Allora con ira chiamò il giustiziere e comandò che al falcone fosse tagliato il capo perch'avea morto lo suo signore.
‘Come uno si confessò da un frate’
Uno si confessò da un frate e disse che, essendo egli una volta alla ruba d'una casa con assai gente, «il mio intendimento si era di trovare in una cassa cento fiorini d'oro, et io la trovai vota: ond'io non ne credo avere peccato».
Il frate rispose:
«Certo sì hai, tale come se tu li avessi avuti».
Questi si mostrò molto crucciato e disse:
«Per Dio, consigliatemi».
E 'l frate rispuose:
«Io non ti posso prosciogliere se tue no·lli rendi».
E que' disse:
«Io il voglio fare volontieri, ma non so a cui».
E 'l frate rispuose:
«Recali a me, et io li darò per Dio».
Questi li promise e partissi; e prese tanta contezza che vi tornò l'altra mattina e, ragionando co·llui, disse che 'l ghera mandato un bello storione, e che glile volea mandare a disinare. Lo frate li ne rendé molte grazie.
Partisi questi, e non lile mandò, e l'altro dì tornò al frate con allegra cera. Il frate li disse:
«Perché mi facesti tanto aspettare?»
E que' rispuose:
«O credevatelo voi avere?».
«Certo sì».
«E non l'aveste?»
«No».
«Dico ch'è altrettale, come se voi lo aveste avuto».
‘Qui conta d'una buona femina ch'avea fatta una fine crostata’
Fue una buona femina, ch'avea fatta una fine crostata d'anguille, et aveala messa nella madia. Poco stante, vidde entrare uno topo per la finestrella, che traeva all'odore. Quella allettò la gatta e misela nella madia perché vi pigliasse entro, e turò la finestrella.
Il topo si nascose tra la farina e la gatta si mangiò la crostata e, quand'ella aperse, il topo ne saltò fuori e la gatta, perch'era satolla, non lo prese.
‘Qui conta d'uno villano che s'andò a confessare’
Un villano si andò un giorno a confessare, e pigliò dell'acqua benedetta, e vide il prete che lavorava nel colto.
Chiamollo e disse:
«O sere, io mi vorrei confessare».
Rispuose il prete:
«Confessastiti tu anno?»
E que' rispose:
«Sì».
«Or metti un danaio nel colombaio, et aquella medesima ragione ti fo uguanno, c'anno».
‘Qui conta della volpe e del mulo’
La volpe andando per un bosco sì trovò un mulo: e mai non n'avea più veduti. Ebbe grande paura e fuggì; e, così fuggendo, trovoe il lupo e disse come avea trovata una novissima bestia e non sapea suo nome. Il lupo disse:
«Andianvi».
Furono giunti a lui. Al lupo parve vie più nuova. La volpe il domandò di suo nome. Il mulo rispuose:
«Certo io non l'ho bene a mente; ma, se tu sai leggere, io l'ho iscritto nel piè diritto di dietro».
La volpe rispose:
«Lassa, ch'io non so leggere! Ché molto lo saprei volentieri».
Rispuose il lupo:
«Lascia fare a me, che molto lo so ben fare».
Il mulo sì li mostrò il piede dritto, sì che li chiovi pareano lettere. Disse il lupo:
«Io non le veggio bene».
Rispose il mulo:
«Fatti più presso, però che sono minute».
Il lupo si fece sotto e guardava fiso. Il mulo trasse e dielli un calcio tale, che l'uccise. Allora la volpe se n'andò e disse:
«Ogne uomo che sa lettera non è savio».
‘Qui conta d'uno martore di villa c'andava a cittade’
Uno martore di villa venia a Firenze per comperare uno farsetto. Domandò a una bottega ov'era il maestro. Non v'era. Uno discepolo disse:
«Io sono il maestro. Che vuoli?»
«Voglio uno farsetto».
Questi ne trovò uno. Provogliele. Furono a mercato. Questi non avea il quarto danari. Il discepolo, mostrandosi d'acconciarlile da piede, sì gli apuntò la camiscia col farsetto e poi disse:
«Tra'l·ti».
Quelli lo si trasse. Rimase ignudo. Li altri discepoli furo intenti con le coregge: lo scoparo per tutta la contrada.
‘Qui conta di Bito e di ser Frulli di Firenze da San Giorgio’
Bito fue fiorentino e fue bello uomo di corte, e dimorava a San Giorgio Oltrarno. Avea un vecchio c'avea nome ser Frulli, et avea un suo podere di sopra a San Giorgio, molto bello, sì che quasi tutto l'anno vi dimorava con la sua famiglia; e le più mattine mandava la fante sua a vendere frutta e camangiare alla piazza del Ponte Vecchio; et era sì iscarsissimo e sfidato, che faceva i mazzi del camangiare colle sue mani e anoveravali alla fante e faceva la ragione che pigliava. Il maggiore amonimento che le dava si era che non si posasse in San Giorgio, però che v'avea femine ladre.
Una mattina passava la detta fante con uno paniere di cavoli. Bito, che prima l'avea pensato, s'avea messa la più ricca roba di vaio ch'avea et, essendo in sulla panca di fuori, chiamò la fante, et ella venne a·llui incontanente: e molte femine l'aveano chiamata prima, non vi volle ire.
«Buona femina, come dai cotesti cavoli?».
«Messere, due mazzi a danaio».
«Certo, questa è buona derrata; ma dicoti che non ci sono se non io e la fante mia, ché tutta la famiglia mia è in villa: sicché troppo mi sarebbe una derrata, et io li amo più volentieri freschi».
Usavansi allora le medaglie, in Firenze, che le due valevano uno danaio piccolo. Però disse Bito:
«Dammene ora una medaglia: dammi un danaio e te' una medaglia; et un'altra volta torrò l'altro mazzo».
A·llei parve che dicesse bene, e così fece; e poi andoe a vendere li altri a quella ragione che 'l signore li avea data; e tornò a casa e diede a ser Frulli la moneta.
Quelli, annoverando più volte, pur trovava meno un danaio, e disselo alla fante. Ella rispuose:
«Non può essere».
Quelli, riscaldandosi co·llei, domandolla se s'era posata a San Giorgio. Quella volle negare; ma tanto la scalzò, ch'ella disse:
«Sì posai a un bel cavaliere; e pagommi finemente. E dicovi ch'io li debbo dare ancora un mazzo di cavoli».
Rispuose ser Frulli:
«Dunque, ci avrebbe ora meno un danaio in ‘uno danaio e’ mezzo».
Pensòvi suso, avidesi dello 'nganno, disse alla fante molta villania e domandolla dove quelli stava. Ella lile disse a punto. Avidesi ch'era Bito, che molte beffe li avea già fatte. Riscaldato d'ira, la mattina per tempo si levò e misesi sotto le pelli una spada rugginosa e venne in capo del ponte; e là trovò Bito, che sedea con molta buona gente. Alza questa spada: e fedito l'avrebbe, se non fosse uno che 'l tenne per lo braccio. Le genti vi trassero smemorate, credendo che fosse altro, e Bito ebbe gran paura; ma poi, ricordandosi come era, incominciò a sorridere.
Le genti ch'erano intorno a ser Frulli domandarlo com'era. Quelli il disse con tanta ambascia, ch'a pena poteva. Bito fece cessare le genti e disse:
«Ser Frulli, io mi voglio conciare con voi. Non ci abbia più parole: rendete il danaio mio e tenete la medaglia vostra, et abbiatevi il mazzo de' cavoli con la maladizione di Dio».
Ser Frulli rispuose:
«Ben mi piace. E se così avessi detto in prima, tutto questo non ci sarebbe stato».
E, non accorgendosi della beffa, si·lli diè un danaio e tolse una medaglia, et andonne consolato. Le risa vi furo grandissime.
‘Qui conta come uno mercatante portò vino oltre mare in botti a due palcora,e come l'intervenne’
Un mercante portò vino oltre mare, in botti a due palcora: di sotto e di sopra avea vino e nel mezzo acqua, tanto che la metà era vino e la metà acqua. Di sotto e di sopra avea squilletto, e nel mezzo no. Vendero l'acqua per vino, e radoppiaro i danari sopra tutto lo guadagno; e tosto che furo pagati, sì montaro in su un legno e misersi in mare con questa moneta. E per sentenzia di Dio apparve nella nave un grande scimion e prese il taschetto di questa moneta e andonne in cima dell'albero. Quelli, per paura ch'elli no 'l gittasse in mare, andaro con esso per via di lusinghe.
Il bertuccio si puose a sedere e sciolse il taschetto con bocca e toglieva i danari dell'oro ad uno ad uno: l'uno gittava in mare, e l'altro lasciava cadere nella nave; e tanto fece, che l'una metà si trovò nella nave, col guadagno che far se ne dovea.
‘Qui conta d'uno mercatante che comperò berrette’
Uno mercatante che recava berrette, sì li si bagnaro; e, avendole tese, sì v'apariro molte scimie, e catuna se ne mise una in capo, e fuggivano su per li alberi.
A costui ne parve male: tornò indietro e comperò calzari e presele: e fecene buon guadagno.
‘Qui conta una bella novella d'amore’
Un giovane di Firenze sì amava d'amore una gentile pulzella, la quale non amava neente lui, ma amava a dismisura un altro giovane, lo quale amava anche lei, ma non tanto ad assai quanto costui. E ciò si parea: ché costui n'avea lasciato ogni altra cosa, e consumavasi come smemorato, e spezialmente il giorno ch'elli non la vedea.
A un suo compagno ne 'ncrebbe: fece tanto, che lo menò a un suo bellissimo luogo, e là tranquillaro quindeci dì.
In quel mezzo, la fanciulla si crucciò con la madre: mandò la fante e fece parlare a colui cui amava, che ne voleva andar con lui. Quelli fu molto lieto. La fante disse:
«Ella vuole che voi vegniate a cavallo già quando fia notte ferma. Ella farà vista di scendere nella cella; aparecchiato sarete all'uscio, e gitteravisi in groppa: ell'è leggiera e sa ben cavalcare».
Elli rispuose:
«Ben mi piace».
Quand'ebbero così ordinato, fece grandemente apparecchiare a un suo luogo: et ebbevi suoi compagni a cavallo e feceli stare alla porta perché non fosse serrata, e mossesi con un fine ronzone e passò dalla casa. Ella non era ancora potuta venire, perché la madre la guardava troppo. Questi andò oltre per tornare a' compagni.
Ma quelli che consumato era in villa, non trovava luogo: era salito a cavallo, e 'l compagno suo no 'l seppe tanto pregare, che 'l potesse ritenere; e non volle la sua compagnia. Giunse quella sera alle mura. Le porte erano tutte serrate, ma tanto acerchiò, che s'abatté a quella porta dov'erano coloro. Entrò dentro. Andonne inverso la magione di colei, non per intendimento di trovarla né di vederla, ma solo per vedere la contrada. Essendo ristato di rimpetto alla casa (di poco era passato l'altro), la fanciulla diserrò l'uscio e chiamollo sottoboce e disse che acostasse il cavallo. Questi non fu lento: accostossi, et ella li si gittò vistamente in groppa, et andarono via. Quando furo alla porta, li compagni dell'altro non li diedero briga, ché no 'l conobbero: però che se fosse stato colui cui elli aspettavano sarebbe ristato co·lloro.
Questi cavalcaro ben diece miglia, tanto che furono in un bello prato intorniato di grandissimi abeti. Smontaro e legaro il cavallo a un albero: e' prese a basciarla; quella il conobbe: accorsesi della disaventura. Cominciò a piangere duramente. Ma questi la prese a confortare lagrimando et a renderle tanto onore, ch'ella lasciò il piagnere e preseli a volere bene, veggendo che·lla ventura era pur di costui; et abbracciollo.
Quell'altro cavalcò poi più volte, tanto che udì il padre e la madre fare romore nell'agio, e intese dalla fante com'ella n'era andata in cotal modo. Questi sbigottì: tornò a' compagni e disselo loro. E que' rispuosero:
«Ben lo vedemmo passar co·llei, ma no 'l conoscemmo: et è tanto, che puote essere bene alungato; et andarne per cotale strada».
Misersi incontanente a tenere loro dietro: cavalcaro tanto, che·lli trovaro dormire così abbracciati: e miravagli per lo lume della luna ch'era apparito. Allora ne 'ncrebbe loro disturbarli e dissero:
«Aspettiamo tanto ch'elli si sveglieranno, e poi faremo quello ch'avemo a fare».
E così stettero tanto che 'l sonno giunse e furo tutti adormentati.
Coloro si svegliaro in questo mezzo, e trovaro ciò ch'era.
Maravigliarsi; e disse il giovane:
«Costoro ci hanno fatta tanta cortesia, che non piaccia a Dio che noi li ofendiamo»:
ma salìo questi a cavallo, et ella si gittò in su un altro de' migliori che v'erano, e poscia tutti i freni degli altri cavalli tagliaro et andarsi via.
Quelli si destaro e fecero gran corrotto, perché più non li potevano ire cercando.
‘Come lo 'mperadore Federigo andò alla montagna del Veglio’
Lo 'mperadore Federigo andò una volta infino alla montagna del Veglio, e fulli fatto grande onore. Il Veglio, per mostrarli com'era temuto, guardò in alti e vide in su la torre due assessini. Presesi la gran barba: quelli se ne gittaro in terra e moriro.
Lo 'mperadore medesimo sì volle provare la moglie, però che li era detto che un suo barone giaceva con lei. Levossi una notte et andò a·llei nella camera, e quella disse:
«Messere, voi ci foste pur ora un'altra volta».