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O non hai teco pensato mai che quante cose sappiamo per legge essere
ottime, e dalle quali abbiamo norme alla vita, tutte le abbiamo imparate con l'aiuto
della parola?
i. Solenne principio agli studi sogliono essere le laudi degli studi;
ma furono soggetto sì frequente all'eloquenza de' professori e al profitto
degl' ingegni, che il ritesserle in quest'aula parrebbe consiglio ardito ed inopportuno.
Né io, che per istituto devo oggi inaugurare tutti gli studi agli uomini dotti
che li professano e ai giovani che gl'intraprendono, saprei dipartirmi dalle arti che
chiamansi letterarie, le sole che la natura mi comandò di coltivare con lungo e
generoso amore, ma dalle quali la fortuna e la giovenile imprudenza mi distoglieano di
tanto, ch'io mi confesso più devoto che avventurato loro cultore.
Bensì reputai sempre che le lettere siano annesse a tutto l'umano sapere come
le forme alla materia; e considerando quanto siasi trascurata o conseguita la loro
applicazione, mi avvidi che, se difficile è l'acquistarle, difficilissimo
è il farle fruttare utilmente. Sciagura comune a tanti altri beni e prerogative
di cui la natura dotò la vita dell'uomo per consolarla della
brevità, dell'inquietudine e della fatale inimicizia reciproca della nostra
specie; beni e prerogative che spesso si veggono posseduti, benché raro assai,
da chi sappia o valersene o non abusarne. Gli annali letterari e le scuole contemporanee
ci porgono documenti di città e di uomini doviziosi d'ogni materia atta a
giovevoli e nobili istituzioni di scienze e di lettere, ma sì poveri dell'arte
di usarne, e sì incuriosi dello scopo a cui tendono, che o le lasciano
immiserire con timida ed infeconda avarizia, o le profondono con disordinata
prodigalità. Onde opportuno a tutte le discipline, e necessario alle letterarie
credo il divisamento di parlare dinanzi a voi, Reggente magnifico, Professori egregi e
benemeriti delle scienze, ingenui giovani che confortate di speranze questa patria, la
quale, ad onta delle avverse fortune, fu sempre nudrice ed ospite delle muse, di parlare
oggi dinanzi a voi tutti, gentili uditori,
ii. Però ch'io stimo che le origini delle cose, ove si
riesca a vederle, palesino a quali uffici ogni cosa fu a principio ordinata nella economia
dell'universo, e quanto le vicende de' tempi e delle opinioni n'abbiano accresciuto l'uso
e l'abuso. Onde sembrami necessario d'investigare nelle facoltà e ne' bisogni
dell'uomo l'origine delle lettere, e di paragonare se l'uso primitivo differisca in meglio
o in peggio dagli usi posteriori, e quindi scoprire, per quanto si può, come
nella applicazione delle arti letterarie s'abbia a rispondere all'intento della natura.
All'intento della natura; ch'ella e non dà mai facoltà senza
bisogni, né bisogni senza facoltà, né mezzi senza scopo;
e non dissimula talvolta l'ingratitudine e i capricci degli uomini, se non se per ritrarli
a pentimento, scemando loro l'utile e la voluttà nelle cose che l'orgoglio di
que' miseri si arroga a correggere. E stimo inoltre che non ad altro uomo i pregi e i
frutti di un'arte evidentemente appariscano, se non a chi sappia quali ne sieno i doveri,
e quanto richieggasi ad adempierli virilmente, e come influiscano alla propagazione
dell'universo sapere, e in che tempi e in che modi giovino alla vita civile. Allora
gl'ingegni si accosteranno alle scuole non tanto con inconsiderato fervore, quanto con
previdenza delle difficoltà, degli obblighi e dei pericoli; allora l'ardire
magnanimo sarà affidato dalla prudenza che misura le proprie forze; allora le
forze non saranno consunte in pomposi esperimenti, ma dirizzate a volo determinato e
sicuro; allora, o giovani, conoscerete che il guiderdone agli studi, la
celebrità del nome e l'utilità della vostra patria sono connesse
alla dignità ed a' progressi dell'arte da voi coltivata. Ma se di egregio
profitto è il soddisfare agli uffici delle arti, l'inculcarli sarà
sempre e di sommo pericolo e d'incertissimo evento; e più assai se, come
avviene nella letteratura, la dimenticanza e la impunità vietino che sieno
riconosciuti e obbediti. E a chi tenta di rivendicarli è pur forza d'affrontare
molte celebrate opinioni ed usanze santificate dal tempo, e fazioni di antiche scuole e
l'autorità di que' tanti che, senza essersi sdebitati degli obblighi delle
lettere, si presumono illustri e sicuri perché le posseggono.
iii. Te dunque invoco, o Amore del vero! tu dinanzi all'
intelletto che a te si consacra, spogli di molte ingannatrici apparenze le cose che
furono, che sono e che saranno; tu animi di fiducia chi ti sente; nobiliti la voce di chi
ti palesa; diradi con puro lume e perpetuo la barbarie, l'ignoranza e le superstizioni;
te, senza di cui indarno vantano utilità le fatiche degli scrittori, indarno
sperano eternità gli elogi dei principi ed i fasti delle nazioni, te invoco, o
Amore del vero! Armami di generoso ardimento, e sgombra ad un tempo l'errore di
cui le passioni dell'uomo o i pregiudizi del mio secolo m'avessero preoccupato l'animo. Fa
che s'alzi la mia parola libera di servitù e di speranze, ma scevra
altresì di licenza, d'ira, di presunzione e d'insania di parti. La tua
inspirazione, diffondendosi dalla mente mia nella mente di quanti mi ascoltano,
farà sì che molti mirino più addentro e con
più sicurezza ciò ch'io non potrò forse se non se veder
da lontano, ed incertamente additare. Che s'io, seguendo te solo, non potrò dir
cosa nuova, perché tu se' antico e coevo della natura, la quale tu vai sempre
più disvelando al guardo mortale, mostrami almeno la più schietta
delle sue forme; moltiplici forme, che, or velate d'oscurità, or cinte di
splendore, sconfortano spesso ed abbagliano chi le mira.
iv. Ogni uomo sa che la parola è mezzo di rappresentare il
pensiero; ma pochi si accorgono che la progressione, l'abbondanza e l'economia del
pensiero sono effetti della parola. E questa facoltà di articolare la voce,
applicandone i suoni agli oggetti, è ingenita in noi e contemporanea alla
formazione de' sensi esterni e delle potenze mentali, e quindi anteriore alle idee
acquistate da' sensi e raccolte dalla mente; onde quanto più i sensi
s'invigoriscono alle impressioni, e le interne potenze si esercitano a concepire, tanto
gli organi della parola si vanno più distintamente snodando. Ché le
passioni e le immagini nate dal sentire e dal concepire o si rimarrebbero tutte indistinte
e tumultuanti, mancando di segni che nell'assenza degli oggetti reali le rappresentassero,
o svanirebbero in gran parte per lasciar vive soltanto le pochissime idee connesse
all'istinto della propria conservazione, ed accennabili appena dall'azione o dalla voce
inarticolata. Il che si osserva negli uomini muti, i quali non conseguono né
ricchezza né ordine di pensieri che non siano richiesti dalle supreme
necessità della vita, se non quando ai segni della parola articolata riescano a
supplire co' segni della parola scritta. E un segno solo della parola fa rivivere
l'immagine tramandata altre volte da' sensi e trascurata per lunga età nella
mente; un segno solo eccita la memoria a ragionare d'uomini, di cose, di tempi che pareano
sepolti nella notte ove tace il passato. Il cuore domanda sempre o che i suoi piaceri
siano accresciuti, o che i suoi dolori siano compianti; domanda di agitarsi e di agitare,
perché sente che il moto sta nella vita e la tranquillità nella
morte; e trova unico aiuto nella parola, e la riscalda de' suoi desideri, e la adorna
delle sue speranze, e fa che altri tremi al suo timore e pianga alle sue lagrime, affetti
tutti che senza questo sfogo proromperebbero in moti ferini e in gemito disperato. E la
fantasia del mortale, irrequieto e credulo alle lusinghe di una felicità ch'ei
segue accostandosi di passo in passo al sepolcro, la fantasia, traendo dai secreti della
memoria le larve degli oggetti, e rianimandole con le passioni del cuore, abbellisce le
cose che si sono ammirate ed amate; rappresenta piaceri perduti che si sospirano; offre
alla speranza e alla previdenza i beni e i mali trasparenti nell' avvenire; moltiplica ad
un tempo le sembianze e le forme che la natura consente alla imitazione dell'uomo; tenta
di mirare oltre il velo che ravvolge il creato; e quasi per compensare l'umano genere dei
destini che lo condannano servo perpetuo ai prestigi dell'opinione ed alla clava della
forza, crea le deità del bello, del vero, del giusto, e le adora; crea le
grazie, e le accarezza; elude le leggi della morte, e la interroga e interpreta il suo
freddo silenzio; precorre le ali del tempo e al fuggitivo attimo presente congiunge lo
spazio di secoli e secoli ed aspira all'eternità; sdegna la terra, vola oltre
le dighe dell'oceano, oltre le fiamme del sole, edifica regioni celesti, e vi colloca
l'uomo e gli dice:
v. Or questo bisogno di comunicare il pensiero è inerente
alla natura dell'uomo, animale essenzialmente usurpatore, essenzialmente sociale:
però ch'ei tende progressivamente ad arrogarsi e quanto gli giova e quanto
potrebbe giovargli; all' uso presente aggiunge l'uso futuro e perpetuo, quindi la
proprietà e la disuguaglianza: né vi poteva a principio essere
proprietà perpetua di cose utili agli altri, senza usurpazione; né
progresso d'usurpazione, senza violenza ed offesa; né difesa contro a pochi
forti, senza società di molti deboli; né lunga concordia di
società, senza precisa comunicazione d'idee. E finché l'umano genere
associavasi in famiglie e in sole tribù, angusti termini somministrava la
terra, angustissimi il tempo alle sue conquiste e a' suoi patti, e poche articolazioni di
voce bastavano all'uso ed alla memoria. Frattanto la forza col suo mal dissimulato diritto
e col perenne suo moto agl'ingegni audaci per vigore aggregava gl'ingegni timidi per
debolezza, e col numero dei vinti rinforzava la possanza del vincitore; le
tribù cresceano in nazioni, e si collegavano sempre più onde
accertare per mezzo dello stato di società e di proprietà gli
effetti dello stato di guerra e di usurpazioni; e il commercio si andò
propagando, e nel permutare da popolo a popolo le messi, le arti e le ricchezze,
accumulò i vizi, le virtù, gli usi, le religioni, le lingue degli
uni con quelle degli altri, disingannò il timore reciproco, destò la
curiosità d'ignote regioni, ed alimentò così la noia e
l'avidità, due vigili istigatrici del genere umano; l'una esagerando il
fastidio del presente, l'altra le speranze dell'avvenire, trassero le genti dalle antiche
sedi natie attraverso delle infecondità delle solitudini e delle tempeste dei
mari a cercare nuovi regni, nuovi schiavi, e ad agitare con nuove stragi, con nuove
superstizioni, con nuove favelle la terra. Questo urtarsi, complicarsi e diffondersi di
forze, d'indoli e d'idiomi, occupando più moltitudine d'uomini, più
diuturnità di fatiche, più ampio spazio di terra, e quindi
più numero d'anni, moltiplicò non solo le idee e le passioni che ne
risultano, ma variò all'infinito i loro aspetti e le loro combinazioni, ed
aumentò la progressione del loro moto, che non poteva essere più
omai secondato dal suono fuggitivo della parola.
Vedi Assegno a Teuto l'invenzione del calcolo astronomico su la testimonianza degli
Egizii, i quali dissero a Socrate: Da questo passo derivano e si concatenano le prove di tre nostre opinioni:
1.º Che le leggi fossero incorporate ai dogmi e alle storie, come appare
nella Genesi, e che i principi fossero capitani e sacerdoti ed artefici ad un tempo, e
i primi tra loro deificati: 2.º Che i popoli nell'emigrazioni e nelle guerre
si portassero reciprocamente le loro religioni, e che ampliandosi quindi le idee, si
ampliasse il significato de' nomi: così
vi. Le forze parziali di una società, incorporate dagli
effetti della guerra, tendeano sempre a' primi contrasi per cui non avrebbero potuto
assalire le forze più concordi d'altra nazione; ogn' individuo dunque,
rinunziando col fatto l'uso delle sue forze al valore del più prode o al senno
de' più avveduti, videsi punito quando le ridimandò o le ritolse;
quindi l'origine delle leggi: così la giustizia eresse carceri, tribunali e
patiboli in mezzo ad un popolo per conservargli la forza, e quindi il diritto di
combattere un altro. Ma perché le passioni de' soggetti poteano rivendicare le
loro forze dalla giustizia o dall'arbitrio di chi ne usava, i pastori de' popoli, compresi
anch'essi dal sentimento dell'esistenza d'una mente infinita, attiva, incomprensibile al
pari dell'universo, si valsero di questo sentimento che vive in tutti <ogni
uomo>, e confederandosi al cielo minacciarono di difendersi co' suoi fulmini; le
menti, affascinate dal terrore di peggior male e dalla speranza di futuro compenso,
s'assopirono sul danno presente; il mistero accrebbe il silenzio, e il silenzio la
venerazione; le leggi furono santificate, e deificati i legislatori; quindi dal mistero i
riti <l'origine de' riti>. Finalmente i principi per eternare la loro fama e
la loro possanza ne' lor successori, e i popoli per disanimare le altre nazioni che
l'alterno moto della forza trarrebbe ad imporre o a pagare tributo, vollero narrare alla
posterità e alle lontane regioni le loro glorie, e l'onnipotenza de' loro numi;
quindi le tradizioni. Dalle leggi, dalle religioni e dalle tradizioni progredì
ogni umano sapere; ché se non pertanto continuavano a commettersi al suono
delle parole, non poetano propagarsi che a poche generazioni; da che l'età
rende inferma la memoria, ambigue le lingue, ed infedeli le tradizioni. Ma il vincitore,
troncando con le scuri grondanti di sangue e rotolando sovra i cadaveri de' vinti i
ciglioni delle montagne, lascia un monumento che attesti agli uomini che vivono e che
vivranno in futuro il campo della vittoria. I cedri verdeggianti sovra le sepolture,
effigiati dalla spada in simulacri d'uomo, sorgono da lontano custodi della memoria
d'egregi mortali; e a' tronchi corrosi dalle stagioni sottentrano ruvidi marmi, ove nel
busto informe dell'eroe sono scolpite imitazioni di fiere e di piante, a ciascheduna delle
quali e alle loro combinazioni sono consegnate più serie d'idee che tramandano
il nome di lui, le conquiste, le leggi date alla patria, il culto istituito agli iddii,
gli avvenimenti, le epoche, le sentenze e l'apoteosi che l'associò al coro de'
beati: così prime are degl'immortali furono i sepolcri.Zoega,
La prima o la maggior piramide fu eretta da L'Egitto fu sempre insanguinato dalle guerre straniere, cittadinesche e servili; ma
la storia ci presenta tre celebri conquistatori, Cambise che desolò ed
imbarbarì tutto l'Egitto mediterraneo, Alessandro che fabbricando la
capitale nell'Egitto marittimo, ridusse quel paese all'antica prosperità, e
riunendo la delicatezza greca all'acutezza africana, lo fece scuola delle scienze e
delle arti: finalmente Selim I, che lo tolse ai Circassi; su di che vedi
Vedi il L'Iside egizia è le più volte rappresentata or con la luna
falcata sul capo, or con la luna piena sul petto.
Dalle voci
Vedi gli espositori de' monumenti etruschi.
Platone parla d'un tempio di Diana ilitia aperto alle incinte:
In molte medaglie Diana rappresentasi con una face.
Questa verità sui principii di tutte le nazioni fu veduta dal Vico, e noi
ci siamo studiati di dimostrarla e di applicare le sue conseguenze alla storia de'
nostri tempi. Vedi il nostro discorso su le vii. Oh quanti mi si presentano i campi fecondati da un unico
germe! e come nel percorrerli ammiro i principj del creato che procedono
acquistando sempre propagazione ed aspetti, né si propagano senza tenore
d'armonia che li ricongiunga, né si trasformano senza serbare vestigi delle
origini antiche! Perdono le scienze i loro calcoli per numerare con quanti anni
di sudore, con quanta prepotenza d'oro e di imperio, con quanta moltitudine di mortali la
piramide di Ceopexiii
viii. Ed ecco omai manifestato che senza la facoltà della
parola le potenze mentali dell'uomo giacerebbero inerti e mortificate, ed egli, privo di
mezzi di comunicazione necessari allo stato progressivo di guerra e di società,
confonderebbesi con le fiere. Donde è poi risultato che non vi sarebbero
società di nazioni senza forza, né forza senza concordia,
né stabilità di concordia senza leggi convalidate dalla religione,
né lunga utilità di riti e di leggi senza tradizione, né
certezza di tradizione senza simboli dai quali il significato della parola impetrasse
lunghissima vita. E poiché l'esperienza delle pesti, de' diluvi, de' vulcani e
de' terremoti fe' che i simboli consegnati a' tumuli, a' simulacri ed a' geroglifici
fossero trasferiti alle apparenze degli asterismi, noi abbiamo veduta riprodursi dal cielo
la religione dei grandi popoli dell'antichità, e fondarsi la teologia politica
per mezzo della divinazione e dell'allegoria. Le quali arti, esercitate da' principi, da'
sacerdoti e da' poeti, diedero origine all'uso e all'ufficio della letteratura.
Renato Cartesio pianta per assioma ix. Quali sieno i principj e i fini eterni dell'universo, a noi mortali
non è dato di conoscerli né d'indagarli: ma gli effetti loro ci si
palesano sempre certi, sempre continui; e se possiamo talor querelarcene, troviamo sovente
nella nostra esperienza compensi di consolazione. L'umano genere turba coi timori la
voluttà dell'ora che fugge, o la disprezza per le speranze che ingannano; si
duole della vita, e teme di perderla, e anela di perpetuarla morendo: ondeggiamento
perenne di speranze e di timori, agitato ognor più dall'impeto del desiderio e
dagli allettamenti della immaginazione. Così piacque alla natura che
assegnò l'inquietudine alla esistenza dell'uomo, il quale aspira sempre al
riposo appunto perché non può mai conseguirlo; però,
languendo le passioni, ritardasi il moto delle potenze vitali; cessato il moto, cessa la
vita; ed ogni nostra tranquillità non è che preludio del supremo e
perpetuo silenzio. E ben possono starsi, e stanno (purtroppo!) nei forsennati
passioni senza ragione; ma la ragione senza affetti e fantasmi sarebbe facoltà
inoperosa; e ogni filosofia riescirà sublime contemplazione a chi pensa, utile
applicazione a chi può volgerla in pro de' mortali, ma inintelligibile e
ingiusta a chi sente le passioni che si vorranno correggere. Aggiungi che come non a tutti
la natura fu equa dispensatrice di forze, così non gli armò con pari
vigor di ragione;
(
: errori ambedue funestissimi sempre alla filosofia delle lettere e del
governo.
Segnatamente nel x. Elementi dunque della società furono, sono e saranno
perpetuamente il principato e la religione; e il freno non può essere moderato
se non dalla parola che sola svolge ed esercita i pensieri e gli affetti dell'uomo. Ma
perché quei che amministrano i frutti delle altrui passioni sono uomini
anch'essi, e quindi talvolta non veggono la propria nella pubblica prosperità,
la natura dotò ad un tempo alcuni mortali dell'amore del vero, della
proprietà di distinguerne i vantaggi e gl'inconvenienti, e più
ancora dell'arte di rappresentarlo in modo che non affronti indarno né irriti
le passioni dei potenti e dei deboli, né sciolga inumanamente l'incanto di
quelle illusioni che velano i mali e la vanità della vita. Ufficio dunque delle
arti letterarie dev'essere e di rianimare il sentimento e l'uso delle passioni, e di
abbellire le opinioni giovevoli alla civile concordia, e di snudare con generoso coraggio
l'abuso e la deformità di tante altre che, adulando l'arbitrio de' pochi o la
licenza della moltitudine, roderebbero i nodi sociali e abbandonerebbero gli Stati al
terror del carnefice, alla congiura degli arditi, alle gare cruente degli ambiziosi e alla
invasione degli stranieri. E appunto nell'origine della letteratura, quando ella emanava
dalla divinazione e dall' allegoria, vediamo contemporanee al potere dello scettro e degli
oracoli la filosofia che esplora tacita il vero, la ragione politica che intende a
valersene sapientemente, e la poesia che lo riscalda cogli affetti modulati dalla parola,
che lo idoleggia coi fantasmi coloriti dalla parola, e che lo insinua con la musica della
parola. Cantavano Lino ed Orfeo che i monarchi erano immagine in terra di Giove
fulminatore, ma che doveano osservare anch'essi le leggi, poiché il padre degli
uomini e de' celesti obbediva all'eterna onnipotenza de' Fati. Cantavano la vendetta
contro Atteone e Tiresia che mirarono ignude le membra immortali di Diana e di Pallade nei
lavacri, per atterrire chi s'attentasse di violare gli arcani del tempio; ma distoglieano
ad un tempo dai terrori superstiziosi le genti, rammentando nelle supplicazioni agli iddii
che anch'essi pur furono un tempo e padri ed amanti ed amici, e che soccorressero alle
umane necessità, da che aveano anch'essi pianto e sudato nel loro viaggio
terreno. Tutte le nazioni esaltando il loro Ercole patrio ripeteano con quante fatiche
egli avesse protetti dagl' insulti delle umane belve, ancor vagabonde per la grande selva
della terra, que' primi mortali che la certezza della prole, delle sepolture e dei campi,
e lo spavento delle folgori e delle leggi aveano finalmente rappacificati; e quegl'inni
accendeano i condottieri alla gloria e i combattenti al valore. Fumavano le viscere
palpitanti delle vergini e dei giovanetti su l'are, perché i popoli nella prima
barbarie libano al cielo col sangue innocente e coi teschi; ma i simulati consigli
d'Egeria al pio successore di Romolo, e la frode della cerva immolata sotto le sembianze
d'Ifigenia placarono ne' templi della Grecia e del Lazio il desiderio di vittime umane.
Sovente ancora la metafisica delle scienze si ornò dell'allegoria per
idoleggiare le idee che, non arrendendosi ai sensi, rifuggono dall'ntelletto. Credevano i
savi antichissimi che l'attrazione della materia avesse a principio combinate e propagasse
in perpetuo le forme ed il moto degli enti; e narrarono che nel caos e nella notte
nascesse Amore, figlio e ministro di Venere, di quella deità ch'era simbolo
della natura. Credevano che l'acqua, il fuoco, l'aere, la terra fossero elementi del
creato; e i poeti cantarono Venere nata dall'onde, voluttà di Vulcano,
abitatrice dell'etere, animatrice di tutta la terra. Ma poiché le allegorie
vennero adulterate dall'orgoglio de' potenti, dalla ignoranza del volgo, dalla
venalità dei letterati, le scienze si vergognarono della poesia, e si
ravvolsero tra i misteri dei loro numeri; e Venere fu meretrice e plebea, sposa di quanti
tiranni vollero essere numi, genitrice di quanti numi abbisognavano a' sacerdoti, ministra
di quante immaginazioni conferivano alle laide allusioni degli artefici e dei cantori, ed
esempio di quanti vizi effeminavano le repubbliche. E voi trattanto, o retori, ricantate
boriosamente le favole, unica suppellettile delle vostre scuole, senza discernere mai le
loro severe significazioni; e i nostri Catoni le attestano per esercitare la loro censura
contro le lettere; e gli scienziati ne ridono come di sogni e d'ambagi; e i più
discreti compiangono quel misero fasto di fantasmi e di suoni. Ma pur nel sommo splendore
della greca filosofia Platone vide tra quelle favole i principj del mondo civile.
xi. Odo rispondere che la teologia legislatrice e la poesia storica si
dileguarono con le opinioni e con l'età per cui nacquero, e che le scienze
essendosi rivendicato il diritto d'illuminare la mente, alle arti letterarie non resta che
l'ufficio di dilettarla. E' vero: il tempo trasforma il creato; ma il tempo non
può distruggere né un atomo dell'universo: e voi tutti che derivate
le vostre sentenze dalle mutazioni degli anni ed i vostri diritti dalle distinzioni dei
nomi, avvertite che l'essenza delle cose non muore se non con esse, e che se talvolta
possono sembrare impedite, non perciò sono sviate dalle loro tendenze. Non vive
più forse nell'uomo il bisogno di rendere con le parole facile all'intelletto
ed amabile al cuore la verità? qual taciturna contemplazione può
apprendere ed insegnare questo nostro sapere, che ci fa sempre più superbi e
più molli? le nostre passioni hanno forse cessato d'agire, o le nostre potenze
vitali hanno cangiata natura? e le scienze morali e politiche, che prime ed uniche forse
influiscono nella vita civile perché sole possono prudentemente giovarsi delle
scienze speculative e delle arti, a che pro tornerebbero se ci ammaestrassero sempre co'
sillogismi e coi calcoli? L'uomo non sa di vivere, non pensa, non ragiona, non calcola se
non perché sente; non sente continuamente se non perché immagina; e
non può né sentire, né immaginare senza passioni,
illusioni ed errori. La filosofia non cambia che l'oggetto delle passioni; e il piacere e
il dolore sono i minimi termini d'ogni ragionamento. Quindi la verità,
quantunque d'un aspetto solo ed eterno, appare multiforme e indistinta al nostro
intelletto, perché noi dovendo incominciare a concepirla coi sensi e a
giudicarla con l'interesse della sola nostra ragione, la vestiamo di tante e sì
diverse sembianze, e le sembianze di tanti accidenti quante sono le disparità
de' climi, de' governi, dell'educazioni, e de' nostri individuali caratteri; onde anche le
cose men dubbie sono assai volte mirate dai saggi con mente perplessa, e dagli altri tutti
con occhio incredulo ed abbagliato. E nondimeno il mortale non s'affanna d'errore in
errore se non perché travede in essi la verità ch'ei cerca
ansiosamente, conoscendo che le tenebre ingannano e che la luce sola lo guida; ma la
natura, mentre gli concesse tanto lume d'esperienza bastante alla propria conservazione,
fomentò la curiosità e limitò l'acume della sua mente,
ond'ei tra le crudelità ed i sospetti eserciti il moto della esistenza,
sospirando pur sempre di vedere tutto lo splendore del vero: misero s'ei lo
vedesse! non troverebbe più forse ragioni di vivere. Or per me stimo
non potersi mai volgere l'intelletto degli uomini verso le cose meno incerte e per
continuo esperimento giovevoli alla loro vita, prima di correggere le passioni dannose del
loro cuore, e di distruggere le false opinioni; il che non può farsi se non
eccitando col sentimento del piacere e del dolore nuove passioni, e con la speranza
dell'utilità fecondando di migliori opinioni la lor fantasia. Se dunque
l'eloquenza è facoltà di persuadere, come mai potrà
dipartirsi dalle umane passioni, e come la ragione e la verità staranno
disgiunte dall'eloquenza? Però questa distinzione d'illuminare e di dilettare
fu a principio pretesto di scienziati che non sapeano rendere amabile la parola, e di
letterati che non sapeano pensare. La filosofia morale e politica ha rinunziata la sua
preponderanza su la prosperità degli Stati da che, abbandonando l'eloquenza, si
smarrì nella metafisica; e l'eloquenza ha perduta la sua virtù e la
sua dignità da che fu abbandonata dalla filosofia e manomessa dai retori.
Sciagurati! si professarono architetti di un'arte senza posseder la materia;
fantasticarono limiti alle forze intellettuali dell'uomo; s'eressero dittatori de' grand'
ingegni; ambirono di magnificare le minime cose, e di trasformare il falso nel vero e il
vero nel falso; l'ozio, la vanità, l'avidità accrebbero la
moltitudine degli scrittori; invano la natura esclamava:
E questa a me pare in gran parte la causa della originalità e della
fecondità dell'italiana letteratura in Firenze, ove, a' tempi di Dante, lo
stato popolare e la libertà eccitavano le passioni de' cittadini e
l'ingegno degli scrittori; mentre le altre città d'Italia ridotte a feudi
imperiali dalle vittorie di Federigo I e di Federigo II contro la Chiesa, continuavano
nella barbarie, e le Muse si stavano nelle corti tra' giocolari, o nelle celle tra'
monaci. xii. Poiché i suoni e i significati degl' idiomi si
trasfusero nelle combinazioni degli alfabeti, questo ritrovato perfezionò la
facoltà di pensare e i mezzi di abbellire e di perpetuare il pensiero. Le norme
dello stile germogliarono spontanee da quelle della favella, perchè hanno
radice negli organi intellettuali dell' uomo, mentre le regole accidentali secondavano la
tempra d'ogni lingua e l'ingegno degli scrittori, finché l'uso e il sonsenso
valsero a convalidarle. Intanto il tempo e le vicende, svelando molti arcani della
legislazione teologica, dileguarono le prime illusioni; però la poesia
seguì a confortare con l'entusiasmo, con la pittura e con l'armonia le utili
passioni degli uomini, ma concesse agli storici d'illuminarle con l'osservazione degli
avvenimenti, ed agli oratori di persuaderle col calore della poesia, con l'esperienza
della storia e con l'evidenza della ragione. Ne' poeti dunque, negli storici e negli
oratori contiensi la letteratura delle nazioni, la quale tanto è più
pregna di bella eloquenza, quant'è più derivata dai sentimenti del
cuore, dalle ricchezze della fantasia, dal nerbo del raziocinio e dalla convinzione del
vero. Quindi la greca letteratura fu sorgente ed esempio agli studi di tutta l'Europa,
perché niun popolo trapassò veloce al pari degli Ateniesi dalla
fierezza della barbarie alla raffinatissima civiltà; e niuno poté
riunire, quant'essi, le passioni e il criterio, che pur sogliono preponderare ad
età differenti negl' individui, ne' popoli e nelle lingue. Solone
meditò di scrivere in versi e fra le cerimonie de' sacerdoti e gli oracoli le
leggi d'una città ove già i metafisici contendeano l'Eliso a'
mortali e l'onnipotenza agl' iddii; ove le virtù della libertà
regnavano ad ora ad ora con l'insania della licenza, e la tirannide anch'essa era
costretta ad essere moderata e magnanima. Un popolo che sapeva e ragionare ed illudersi, e
coronare la virtù ed esiliarla, che trucidava i tiranni, debellava le armi di
tutta l'Asia, dava norme di giustizia a' Romani, e non sapea godere né la
giustizia né la libertà né la pace, un sì
fatto popolo doveva esercitare la sagacità de' prudenti, il valore de' forti,
la virtù de' savi e il vigor degl' ingegni; dovea congiungere ne' loro pensieri
l'entusiasmo ed il calcolo, e nella loro lingua il colorito, la musica e tutto il disegno
ad un tempo e la filosofica precisione.
Ecco un passo di Gorgia recato da Plutarco, e da noi tradotto letteralmente. Corace siracusano mandò primo in Grecia un libro rettorico tessuto su le
fallacie dialettiche: vedi i
xiii. Finché la filosofia s'attenne all'utile
verità della pratica morale e politica, e che l'eloquenza s'attenne alla
filosofia, la città fu retta da quegli ambiziosi che la natura destina alla
prosperità delle repubbliche, da che gli ha dotati d'animo generoso e di
egregia prepotenza d'ingegno. E come i principi degli Ateniesi non doveano mostrarsi
ardenti, prodi, avveduti, se dalla loro virtù pendeva la loro patria, e dalla
patra la loro gloria e la loro possanza? come la loro voce si sarebbe mai dipartita dalla
passione e dal vero, se l'eloquenza sola svolgeva le anime fervide e liberissime de' loro
concittadini? Ma poiché il furore d'imperio, di ricchezze e di fama
è più vile e più cieco quanto più vive negli
uomini meno degni, e l'eloquenza signoreggiava in Atene i teatri, i licei, i parlamenti e
gli eserciti; tutti i faziosi che la natura non avea creati facondi, s'argomentarono di
aiutarsi dell'arte. Se non che il pensiero e il modo di rappresentarlo risultando dalla
tempra e dall'accordo del cuore, dell'immaginazione e del raziocinio, l'eloquenza non
è frutto di verun' arte; ché se la natura non forma vigorose,
arrendevoli e bilanciate in un uomo queste potenze, qual occhio mai saprà
indagarne i difetti, qual mano applicarvi i rimedi? E non pertanto, mentre la civile
filosofia fu adulterata dall'arte dialettica, l'eloquenza cominciò ad essere
manomessa dalla rettorica. Già la metafisica, allettando gl' ingegni
più nobili alle sublimi contemplazioni, facea sì ch' ei sdegnassero
di dar utili esempi alla loro patria per aspirare ad ammaestrarla su le leggi del globo,
del sole, dei cieli, dell'etere, del caos, dell'eternità, dell' universo;
grandi nomi, incomprensibili idee, e quindi involute in voci mirabili al volgo. Con questo
esempio si coacervarono in un vocabolo solo molte idee morali che già nell'uso
erano determinate e sicure, ma che riunite in una diveniano indistinte e parvero astratte;
indi, sotto colore di dilucidarle, furono tanto divise, che le loro fila facendosi
impercettibili, anche le loro parti sembrarono opposte tra loro, e bisognarono nuovi
termini, astrusi anch'essi, perché applicati a nozioni ignote all'uso ed
all'esperienza: così gli ingegni, sviandosi nel labirinto delle speculazioni,
armandosi di termini universali in cui si presumea d'indicare l'essenza, le
qualità, le quantità, gli accidenti, i caratteri, le differenze e le
coerenze di tutte le cose, e schermendosi o con distinzioni, inesatte sempre
perché le parole erano indefinite ed ambigue, o con definizioni che
promettevano di accertare la natura degli enti, ma che sviavano dalla certezza del loro
uso, s'imparò ad insidiare la ragione e a far sospetta la verità:
quindi la moltitudine de' sofisti, l'indifferenza del vero ch'essi non sapeano difendere,
l'irriverenza al giusto ed al bello che poteano negare, l'amore del paradosso da cui solo
attendeano trionfi, l'infinito numero delle quistioni, la libidine eterna di controversie,
l'arte dialettica insomma. Su queste trame fu tessuta l'arte rettorica da quei letterati
venali che, promettendo di far eloquenti gl' ingegni vani e le lingue più
invereconde, ebbero le cattedre affollate di demagoghi e di pubblicani che già
con le speranze invadeano gli onori, le leggi e l'erario della repubblica. Primo Gorgia,
che non poteva amare una città ov'egli era mercenario e straniero,
insegnò in Atene a blandire i vizi e l'ignoranza del popolo, ammaliandogli
l'intelletto con la pompa delle figure, chiudendogli il cuore alla voce degli affetti e
del vero, lusingandogli i sensi con l'azione teatrale e con la cadenza di periodi aculeati
e sonanti.
. Vedi l'opuscolo
Di tutti questi studii di Socrate vedi il
Vedi i due celebri versi di quest'oracolo e l'interpretazione di Svida, all'articolo
Vedi
xiv. E Socrate, che non ambiva né gloria di scienziato,
né emolumenti di retore, né dignità di capitano e di
pritano, ma che vedeva quanto le virtù cittadine scadeano con la vera eloquenza
e con esse l'onore e la libertà della patria, ripetea que' consigli che tanti
scrittori hanno serbati a noi posteri. Ed io li leggeva per emenda della mia vita; ma
oggi, poiché nelle poetiche e ne' trattati non so discernere aiuti all'istituto
di professore, ordinerò que' consigli di Socrate per unica norma alle lezioni
ch'io potrò scrivere; e piaccia a voi pure di udirli. Uditeli:
benché forse il mio stile, non certamente l'arbitrio de' miei pensieri,
potrà violare il discorso di quel giustissimo tra i mortali: O Ateniesi,
adorate Dio, e non aspirate a conoscerlo: amate il paese ove la natura vi ha fatto
nascere, e seconderete le leggi dell'universo: non disputate sull'anima, ma dirigete le
vostre passioni verso le cose che giovarono a' nostri padri. O miei concittadini, non a
tutti è dato di essere oratore o poeta: coltivate i vostri poderi, permutate i
frutti e le merci, poiché tutti abbiamo necessità della terra e a
pochi manca l'industria: tutti i padri possono educare i loro figliuoli a venerare
gl'iddii, ad obbedire alle leggi, ad amare la patria, e tutti i giovani possono difenderla
co' loro petti; ma in ogni studio ascoltate il proprio Genio, e sarete onorati e
benemeriti cittadini. Sì, Ateniesi, un Genio parla nel petto a ciascheduno di
noi; però l'oracolo, consultato da' miei genitori, rispose: Che facessero voti
a Giove padre e alle Muse, e che mi abbandonassero in tutto al mio Genio;
In quell'orazione Isocrate piantò per assioma che l'eloquenza debba
magnificare le minime cose, ed impicciolire le grandi; e procede esaltando i
benemeriti degli Ateniesi. Vedi
Leggi l'orazione inaugurale E che dirò io di quegli scrittori che senza celebrità
letteraria, senza onore domestico, senza amore agli studii e alla patria s'accostano a
celebrare le glorie del principe? Infami in perpetuo, se la loro penna potesse almeno
aspirare ad una infame immortalità! Ma vili e ignoranti ad un tempo hanno
per principio e fine d'ogni linea che scrivono, il prezzo della dedicatoria.
Sapientemente Ottaviano che era in necessità di alimentare le lettere e di
rispettare gl'ingegni, spediva decreti perché gli scrittori d'ignobile fama
non lo lodassero: xv. Così l'arte andò deturpando sino a'
dì nostri le lettere: non però valse ad annientare il decreto della
natura che le destinò ministre delle immagini, degli affetti e della ragione
dell'uomo. E mentre Isocrate pronunziava dopo dieci anni di squisitissima industria un
panegirico della repubblica, ove intendendo di esaltarla con l'eloquenza vituperavala col
raziocinio;
xvi. Queste cose (considerando, come ho saputo, la natura dell'uomo e
le storie) ho meditate e scritte intorno all'origine e all'ufficio della letteratura.
Ché se le giudicherete di vostro profitto, io l'ascriverò alla
efficacia meravigliosa del vero, il quale, benché taciuto per lunghissima
età ed acremente impugnato dagli uomini, si vendica per sé stesso
dell'obblivione de' tempi e della pertinacia delle opinioni. Se non ch'io pure non
avrò forse difesa che la mia propria opinione; ma tolga il cielo che quanto io
scrivo possa riescire mai di alcun danno alle lettere ed all'Italia.