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Le produzioni dinanzi a noi servono a manifestare le condizioni reali dello stato della poesia in Italia, e in che oggi consista e a che giovi l'arte nuova o scienza chiamata Dramaturgia da' Tedeschi, – e insieme suggeriscono osservazioni e somministrano fatti tendenti a dimostrare un principio di applicazione generale alla letteratura d'ogni nazione, perchè (?) utile a tutte, ed è che fra i mille studi vani de' letterati, fra il loro affaccendarsi ad anatomizzare, più che a godere i lavori dell'immaginazione e del genio, è vanissimo e noiosissimo; e bastasse! – Ma mentre che la società com'è oggi costituita snerva [il] vigore naturale del genio, il criticismo cospira o a incatenarlo sotto sistemi convenzionali o a farlo errare in traccia di nuove norme per nuovi lavori, le quali teorie visionarie riducono all'inazione del pirronismo.
Mio scopo è di ridurre per quanto possibile a verità ciò che può parere opinione controversa; di applicarla alla letteratura in generale senza stare nel tempo stesso a pericolo [di] giudicare minutamente in tutte le sue parti alcuna opera se non nella lingua che sola ho trattata per lunghi anni, e alla quale ho tentato sempre d'applicare quel poco che ho potuto sapere dell'altre – e di osservare parecchie delle regole, i sistemi e le teorie vecchie e nuove, specialmente della poesia tragica, altre bandite, altre prevalenti in Europa, ed oggi cozzanti fra loro fra gli Italiani, i quali m'importa di far avvertiti che liti sì fatte non gioveranno finalmente se non a mortificare e intricare più sempre in questioni quel poco di letteratura che resta ad essi, – e della quale deeno avere più cura perchè ove la perdano, cos'altro più resta?
Fra i promotori di sì fatte questioni l'illustre Heyne protesta di favorirle in Italia per
Che il poco scritto in Inghilterra intorno alla tragedia in questione non sia stato inteso è ammesso da quei che ci incolpano il criticismo inglese e pur nondimeno seguono ad incolparcelo. L'illustre Tedesco, al quale il titolo di Nestore autorevole della letteratura europea fu conferito meritamente dalla lunga età e celebrità – voglia il cielo preservargliele tutt'e due lungamente! –
La impotente vanità d'uno scrittore che vuol farla da poeta insieme e da critico ed antiquario, con la speranza che se gli altri meriti gli saranno negati dal mondo, uno non foss'altro gli rimarrà ad acquetare alla meglio la sua impazienza di fama. La natura ingenita della vanità e specialmente della letteraria, consiste a nudrirsi e soddisfarsi di qualunque alimento per quanto sia misero e vile.
I caratteri di poeta storico, d'antiquario e di critico letterario, sono essenzialmente sì differenti e irreconciliabili fra di loro, che un individuo dotato di facoltà sì straordinaria da poterli riunire ed esercitare mirabilmente tutti alla lor volta, li guasterebbe tutti se mai gli esercitasse tutti ad un tempo. Le sue varie facoltà nuocerebbero al suo genio se non fossero accompagnate dal discernimento di occuparlo separatamente in opere al tutto diverse fra loro. Altrimenti la illusione contemplata dal poeta non si trova mai in contrasto con la verità illuminata dalla Storia e dissipata col processo cautissimo delle indagini dell'antiquario che riduce spesso ad arida materia di fatto non solo le descrizioni della poesia, ma spesso anche le narrazioni eloquenti della storia. Ma il poeta deve guardarsi più ch'altro dall'accompagnare i lavori della sua immaginazione con discussioni di teorie e regole dell'arte poetica, le quali tutte, giuste, o assurde, o controverse che siano, sono tali di lor natura da trasformare un uomo di genio in sognatore metafisico ed in pedante.
Or quanto alle
Quanto a' tragici illustratori delle loro opere in ciò che riguarda unicamente la critica letteraria, gli esempi sono meno frequenti, e [i] più d'essi spettano più tosto a' (la) due secoli passati che al nostro, e alle altre nazioni letterarie più che all'inglese. Qui a' poeti a' quali pur troppo toccano mille censure giuste e ingiuste da dotti e ignoranti (e bastasse!) ma anche da ciarlatani e impostori letterari – a' poeti non par di evitare almeno la taccia di costituirsi giudici de' loro propri lavori, e la pena che incorrerebbero dal tenebroso tribunale d'inquisizione letteraria composto da noi reviewers, e noi per certo non lasceremmo impunito qualunque minimo atto d'usurpazione su le nostre giurisdizioni. Ma quando il tribunale nostro non esisteva, o dove esistendo non è temuto nè corteggiato, il che [non] avviene in Italia, se non dagli autori mediocri, i poeti facevano e fanno la critica sopra sè stessi.
Corneille dietro alle sue tragedie scriveva un giudizio, imparziale, per quanto è umanamente possibile, breve, schietto, assegnando ragioni del metodo da lui tenuto, e desumendone quelle teorie generali che nel corso del suo esame gli si presentavano spontaneamente. Milton in grazia del suo
Alfieri tornò al metodo dignitoso e più utile di Corneille, e additando i pregi e i difetti che parevagli di vedere in ogni sua tragedia, conchiude il volumetto delle sue osservazioni assegnando ragioni del suo sistema intorno alla sceneggiatura, la lingua e la verseggiatura ch'egli adottò, confessando e dolendosi che non gli riescì sempre di fare che tutti i suoi passi percorressero sempre dirittamente la strada ch'ei s'era tracciata.
Pare che oggi i concittadini dell'Alfieri mirando a far tragedie migliori, o non foss'altro diverse in tutto dalle sue, si riserbino solo a imitarlo e sorpassarlo a discorrere da critici intorno a' loro propri lavori. Del fare, e anche del solo tentare di tenere strada diversa dalla sua li lodiamo, e se mai riusciranno a far meglio, li loderemo. Frattanto ricorderemo ad essi che l'Alfieri non dottoreggiava sopra ad ogni tragedia ch'ei pubblicava; e che da principio le lasciò correre schiette, nude, senza pur accompagnarle dell'argomento; e non inserì le sue osservazioni se non nella completa ristampa di tutte, allorchè vide che la celebrità che gli avevano meritata gli permetteva di potere senz'arroganza, pronunziare la sua opinione sul merito e demerito delle fatiche che occuparono la sua vita e tutte le facoltà dell'anima sua. Del resto sarebbe da desiderarsi che nè Milton nè gli altri giganti avessero mai giustificato i loro successori d'ogni statura a fare da poeti insieme e da critici, vale a dire anatomici più o meno abili, ma tutti crudeli delle creazioni del loro genio. Narrasi d'un chirurgo punito capitalmente, e meritamente davvero, perchè, o per impratichirsi della sua professione o per farne sfoggio, tentava ogni giovinetta dotata d'una bella mano a lasciarsela scarnificare e insegnarle l'industria secreta della natura nella tessitura de' muscoli de' tendini e delle fibre. Certo la critica non fa strazio molto diverso de' lavori del genio. Ben può forse notomizzarne ed additarne minutamente il processo occulto, ma la loro nativa bellezza e freschezza e vivente energia se ne vanno. Ma non sì tosto i nascosti e spesso meschini espedienti dell'arte si manifestano, la magia della meraviglia dileguasi, e l'analisi che sa decomporre, non può mai ricomporre.
D'Alembert, senza troppo. lodare il criticismo pur lo giustifica come necessario, paragonandolo agli occhiali che aiutano chi è corto di vista. Ma, a chi gli avesse osservato che quegli stessi occhiali annebbiano e finirebbero ad acciecare per sempre gli occhi naturalmente forti e acutissimi, che avrebbe egli risposto? Or noi ci sentiamo convinti che molti uomini dotati di vigorosissimo genio, lo snervarono appunto perchè cercarono di perfezionarlo sotto la tutela del criticismo. Nè siamo meno convinti dell'opinione che non solo i poeti, ma anche i lettori di poesia sono creati dalla natura; e perciò quei che contendono che il critico, se non può fare poeti, può nondimeno moltiplicare i lettori, e dirigerli, dovrebbe innanzi tratto trovare il secreto di infondere molt'anima dove la natura n'ha infusa pochissima, e di rimutare le facoltà intellettuali di tutti quelli che sono creati a molte altre cose certamente più utili, ma che perciò appunto mancano quasi sempre d'ardore di cuore, di mobilità di fantasia, e più ch'altro della rapida intuizione senza la quale il piacere che sgorga dall'arti d'immaginazione è pochissimo e freddo. La critica letteraria, alla stretta de' conti, segnatamente sulle opere drammatiche non serve che alla vanità de' drammaturgi o metafisicanti, o pedanteggianti. Gli uni spaziando nelle regioni nuovissime trascendentali del Sublime, del Grande, e del Bello Ideale; gli altri accosciati ed immobili sotto l'ombra dell'antichità ad ascoltare que' frammenti d'oracoli chiamati
Or la parola di imitazione fu ella mai ben definita i e quella di natura può ella essere mai definibile? Pur da che senza queste due parole non v'è criticismo, le impiegheremo, e senza assumerci di dichiararle, l'applicazione che ne faremo dichiarerà non foss'altro in che senso noi le intendiamo. Però comincieremo dall'osservare a' poeti, che se non faranno mai le parti di critici su le loro proprie opere, imiteranno, almeno in ciò, la Natura. La Natura lavora, matura e abbellisce ogni sua creazione invisibilmente, e la fa sorgere perfetta e ammirabile quasi in un subito; e il secreto delle sue operazioni accresce la istantaneità, la forza, e la meraviglia degli effetti ch'essa produce. Chi non sente che in questo mistero consiste la gloria tutta della Natura, e che s'ella ci mostrasse le sue leggi, le cagioni d'esse, il processo e i mezzi ch'ella adopera, nè l'Universo immenso quant'è, nè Sole, nè Stella, nè l'Oceano, ci desterebbero mai meraviglia? In questo dunque il poeta vero cominci a imitar la Natura. Se rende conto del come e del perchè ha fatto piuttosto così che così, se professando la fede di storico, la diligenza d'antiquario, e il petulante dottoreggiare di noi critici, vorrà mostrare donde abbia ricavato i materiali de' suoi lavori quale e quant'uso n'abbia egli fatto, i suoi lavori non parranno più creazioni, ed egli vilmente rinunzierà alle prerogative del genio, immiserirà la sua immaginazione, s'accomunerà alle altre specie di scrittori, e quindi anzichè imitar la Natura, terrebbe un metodo al tutto opposto da quello ch'essa ha tenuto sempre, e terrà.
La lite intorno la preferenza fra' tragici greci, e moderni rimangasi, quanto a noi, dove sta; e ci basta che niuno neghi il fatto che da quando il criticismo incominciò a predominare a' dì d'Aristotile, la poesia declinò. Critici all'età di Eschilo, Sofocle, ed Euripide non ne mancavano; e l'ultimo d'essi sentì forse acerbissima la satira d'Aristofane. Ma tutti que' tragici si stavano da parte in dignità silenziosa – e in ciò almeno erano di certo superiori a' moderni – senza giustificarsi, nè analizzare, nè teorizzare, fidando nell'immortalità che è ricompensa inseparabile dalle fatiche e dalle doti del Genio. Omero aveva insegnato ad essi fra mille altre cose, anche questa – e la Natura del Genio ad Omero – di celare l'autore a tutto potere, e di non mostrare che la creazione: nè Omero fa mai parola o cenno di sè come se intendesse di lasciar credere a' posteri che l'
L'illustre Goethe mi porge occasione da me invano esplorata per lungo tempo di studiarmi una volta a sotto[porre] all'esperimento del giudizio del mondo la mia opinione della poca utilità, e del moltissimo danno della critica letteraria. Altri, non dubito, m'apporrà l'ambizione di oppormi ad un avversario col quale il solo ardire di misurarsi riesce onorevole; e sel creda. Non io offrirò complimento sì rancido insieme ed abbietto all'illustre Tedesco; e senza tenermi sicuro della vittoria, so che l'avventurarsi a combattere senza convinzione o illusione non foss'altro di avere ragione, nè forze a sostenerla è impresa da stolto; e che il non avere in sì fatte questioni in vista se non la fama, o anche l'aspettarsela, molto o poco è indizio di scrittore impotente a procacciarsela in modo più degno. Bensì gli chiederò innanzi tratto perdono se mai la mia ammirazione per il grand'uomo di genio fosse alle volte vinta dalla libertà ch'egli assumendo l'ufficio di professore di critica, deve concedere a chi gli s'oppone; e sciaguratamente sì fatti argomenti, malgrado la loro apparente importanza (?), sono sì meschini che rendono ridicolo a sè stesso chiunque se ne affaccenda, e quindi è tentato alle (?) volte (?) di ridere di chi le ha provocate. L'avere egli promosso questioni di critica letteraria segnatamente di poesia tragica fra gl'Italiani, l'aver professato ch'ei lo fa per favorire un sistema, l'aver illustrato il sistema con una nuova tragedia, mi tolgono dal pericolo, che non avrei mai affrontato, di far esperimento di sistema e regole e teoria sovra una produzione in altra lingua [da quella] che sola mi par di sapere, e alla quale ho applicato quel tanto che m'è toccato d'imparare delle altre. Il sistema nel tempo stesso appartenendo a un uomo eminente, l'esperimento sovr'esso attirerà a un tratto gli occhi di tutti, e il giudizio di molti, e a me verrà fatto o di disingannarmi, o di ridurre prossima alla verità un'opinione che è stata fino ad ora controversa – di applicarla alla letteratura in generale osservando....
Che questa non sia visione pochi, crediamo, vorranno negarlo. Che sia casuale può darsi considerando che ciò avviene per lo più agli uomini di gran genio, specialmente nella vecchiaia quando rimane il bisogno abituale di esercitare il loro intelletto e le forze della loro età sono isnervate dal troppo uso e dagli anni. Che sia visione fittizia a solo fine di godere della compiacenza – la quale Goethe nella vita ch'ei scrisse di sè, ingenuamente dichiara che gli era carissima – di combattere non per la verità che sempre è difficile a ritrovarsi, ma per la vittoria, facile agli uomini di genio, e così persuadere agli altri per vero ciò ch'ei teneva per falso e ridere della loro credulità. Certo, il diritto di ridere del genere umano è conferito dalla natura a tutte le menti superiori, e purtroppo il genere umano li costringe ad esercitarlo anche senza sentirne piacere. Ma in questo caso sarebbe diritto esercitato iniquamente. Il Carmagnola è il primo saggio dell'Autore; e tante lodi, non ottenute da Omero inclusivamente sino a dì nostri da poeta veruno, essendo esaltate dalla celebrità e dal genio del panegirista, sembrano più che troppo, non diremo a rendere il furore del poeta più che poetico, ma ad avvezzarlo ad aspettarsi elogi, che rarissimi, se non forse gli amici suoi, saranno in buona coscienza disposti a prodigargli; ed ei in buona fede finirebbe a farsi ridicolo al mondo. Pessimum inimicorum genus landantes
– e da che abbiamo commesso ciò che dalla critica metafisica è considerato pedanteria, di citare una sentenza di Tacito, lasciamone correre un'altra
«Le système, dice il critico illustre,
L'illustre Goethe professando «di promovere» un sistema di poesia tragica che trova molti avversari in Italia, e ne può forse trovare alcuni in Germania, lo illustrò sopra una recente tragedia italiana. Il minutissimo esame [che] egli n'ha fatto [ha dovuto ] esaltare la sua immaginazione in guisa ch'ei non pare che parli da uomo, nè ad uomini, nè d'umano lavoro. Conclude pronunziando la produzione «nella quale tutto è eccellente, eminente» – «tutto assolutamente giustificato e invulnerabile da qualunque obbiezione» – «tutto è cospirante a formare compiutamente un gran quadro dell'umana natura» – «tutto diretto a sdegnare le parti deboli dell'umana sensibilità e ad eccitare emozioni gravi e profonde» – «tutti i dettagli costantemente nobili, eleganti e corretti» – «tutte le sentenze ed i versi d'innarrivabile perfezione» – «tutto lo stile ammirabile in guisa che l'aggiungervi, sottrarvi e mutarvi parola sarebbe impossibile» – e vi s'aggiunge «che non v'è da scoprirvi nè l'ombra pure di un solo difetto» – certo tale miracolo di produzione, giustifica il sistema patrocinato dal critico illustre, sì che a' tragici presenti e futuri d'ogni nazione letteraria in Europa sarebbe stoltissima ostinazione il non seguire il consiglio ch'ei porge, di sciogliersi oggi per sempre d'ogni regola conosciuta, e affrettarsi nella via spianata e percorsa dal nuovo poeta a sicurissimi passi con esempio che benchè unico «basta a potervi fondare altre regole più efficaci».
Importa dunque alla letteratura d'ogni nazione, a' principj universali dell'arti d'immaginazione e della poesia d'ogni popolo, e segnatamente della drammatica, che ciascuno esamini con gli occhi suoi una produzione eletta per pietra angolare d'un sistema da un autore, a cui la lunga vita e celebrità hanno meritamente conferito il titolo e l'autorità di Nestore della letteratura europea. Adunque io mi studierò sì nell'esame ch'ei fa di quella tragedia e sì nell'esame ch'ei ne portò, non già di difendere metodi già praticati o proporne de' nuovi, ma unicamente – a ridurli tutti quanti in una sola opinione, alla quale per avventura questo libricciuolo darà lume ed [essenza] di vita diversi per essere dati essenziali del Genio. Ogni produzione quantunque bella e sublime si fa conoscere dalla efficacia irresistibile de' suoi effetti. Quindi nelle arti d'immaginazione non v'è nulla di grande propriamente derivante da scuole vecchie o nuove; ma ciascuna produzione grande è un oggetto individuale che ha meriti diversi e caratteri distintivi dalle altre – e quindi, fra mille studi vani in letteratura l'affaccendarsi ad anatomizzare i grandi lavori nelle arti d'immaginazione a fondarvi teorie o soggettarli a sistemi, [è] studio vanissimo, ed è noiosissimo; – ma bastasse! – perchè mentre la società qual è oggi costituita snerva il vigore innato del Genio, le pedanterie cattedratiche, gli oracoli metafisici, la discordia e il pregiudizio de' critici illustri, la turba de' loro seguaci ciarlatani a dir vero, e ignorantissimi, ma pur formidabili per il loro [numero] e l'impudenza e la sciagurata necessità di guadagnarsi la vita facendosi manifattori di criticismo, sono tutte cause che riducono il genio a non fidarsi più degli ingeniti suoi poteri, o dubitare delle sue inspirazioni, o lasciar raffreddare le sue passioni, [fino] ad essere predominato più dal terrore passivo delle censure, che dalla speranza di gloria, o a errare in traccia di teorie di visionari o incatenarsi a leggi imposte dalla prescrizione o dalla moda, e struggere le sue forze perdere il suo coraggio e quindi inevitabilmente a prostrarsi nella disperazione e nell'inazione del Pirronismo.
E da che la parola Genio in questi soggetti ricorre di necessità ad ogni poco, ed infatti è l'idea capitale d'ogni ragionamento, giova che qui sia premessa la nozione vera o non, poco importa, ma chiara, la quale io intendo in questa parola.
O siano esse divine, come moltissimi stimano, le forze della mente, o umane, e non altro com'io per esperienza in me stesso sono costretto a presumerlo certo è che non solo sono visibili ne' loro effetti, ma per così dire nella loro esistenza, da che si considera che i loro necessari stromenti non sono che organi composti di carne e sangue o altro che sia, ma tutte ad ogni modo verificano l'espressione omerica «e con
La parola [genio?] fra' Greci andò acquistando idee metafisiche e favole di religione. Socrate, per indicare la verità che la poca felicità su la terra per gli uomini sta tutta a
Delle venti tragedie dell'Alfieri quattordici sono di soggetti greci o romani e, all'eccezione di un solo, la
Ma il
Per quanto si possa rispondere a queste opinioni, la sentenza con la quale concludono non ammette risposta; che le passioni de' personaggi abbiano partecipato di generosità e i loro motivi di grandezza è regola vera perchè è prescritta dalla natura nel cuore umano pronto sempre a compatire le sventure e colpe che procedono da passioni alte, ed hanno grandi motivi; – e a disprezzarle quando derivano da sentimenti abietti ed interessi venali e plebei. Un Eroe su la scena che per arricchire foggia un testamento o una Eroina che s'innamora del suo palafreniere di suo marito e poi n'hanno rimorso e finiscono per soffrirne la perdita, per quanto parlino nobilmente e pateticamente e filosoficamente, faranno eccellenti drammi sentimentali, ma ridicola ogni tragedia. Timoleone sacrifica un fratello per la libertà della patria, Bruto i suoi figli; e Oreste la madre per vendicare la uccisione del padre suo – e Antigone per poter seppellire il cadavere del di lei fratello, e per non ammogliarsi al figlio ch'ella nondimeno amava ardentemente, [disobbedisce] alla sua famiglia sacrifica la sua più cara passione, si rassegna a una [morte] crudele.
Ma la [scuola] chiamata nuova insiste a ridire che gli spettatori e lettori sapevano già da gran tempo tutti questi avvenimenti. E appunto perchè li sapevano, tanto più Alfieri [si studiava]
Or di questo poeta, perchè è della scuola chiamata vecchia [nulla più è detto]. Manzoni in cento e più pagine dove tratta delle solite questioncelle dell'unità [di fatti] di tempo e di luogo, toglie gli esempi da poeti d'ogni età e d'ogni popolo non [però dall'Alfieri].
Ma questo poeta perchè, senza ch'ei se l'abbia pensato mai, si vuole ch'egli appartenga se sia il corifeo della scuola chiamata vecchia, pare che sia condannato oggimai a oblivione perpetua. Certo il signor Manzoni in una lettera lunga cento e più pagine a un Francese e dove ritratta anticaglie degli arzigogoli unità di tempo, unità di luogo e di fatti, richiama agli esempi de' tragici d'ogni età e d'ogni popolo e grandi, mediocri, e pigmei, non però l'Alfieri. Lo nomina solamente per ricordare ch'ei scrisse il
Per tragedia classica e scuola vecchia intendono i Greci, i Francesi e gl'Italiani. Or v'ha egli somiglianza veruna fra il teatro di questi tre popoli? Non farebbero invece tre scuole del tutto distinte? Ma si fatta esistenza di scuole è sogno di pedanti o superstiziosi, o fanatici, o l'uno e l'altro, come pare il caso dell'autore dell'opuscolo. Ciascun dramma dello stesso poeta, se ha genio, riesce necessariamente più o meno diverso, dall'altro. – Ciascuno de' poeti tragici appartenenti alla stessa nazione e alla stessa epoca, se hanno originalità, sono necessariamente dissimili fra di loro. Chi mai raffrontando i piani de' drammi di Eschilo, Sofocle ed Euripide e i caratteri de' lor personaggi e il loro stile e la loro lingua, non si crederebbe che tanta diversità non potrebbe mai esistere se non in poeti di età diverse? Pur vivevano nella stessa città, Sofocle e Euripide, erano coetanei, Eschilo fu conosciuto personalmente da Sofocle, e tutti e tre scrivevano per lo stesso popolo di spettatori. Tanto più
Forse uno stile più semplice e più disinvolto, come lo è talvolta quello del Maffei, del Metastasio, del Goldoni e di alcuni viventi, può essere pel dialogo più dicevole di quello d'Alfieri. Ma credo che la sua smania di non dire cose comuni abbia traviati moltissimi begli ingegni. Onde crearsi un modo diverso dal consueto, abbandonata la civile e naturale favella, si piacque di lambiccare ogni frase, ogni periodo, frugare negli antichi, onde innestare ne' libri nostri strane leggiadrie e squisitezze che non possono essere da tutti gustate, nè costantemente seguite. Intanto noi manchiamo di uno stile unico e nazionale, come lo hanno alcuni altri popoli. Lo stile in Italia è un oggetto di moda; mutavasi una volta di secolo in secolo, or forse di mese in mese. Molti eccellenti scrittori in questa età nostra grammaticale meritarono successivamente gli onori dell'imitazione; ma adoperando essi, chi più chi meno, maniere insolite e una favella spesse volte rettorica e diversa da quella che è nella bocca d'ogni colta persona, non saprei decidere se abbiano recato più vantaggio o nocumento alla nostra letteratura. Ora l'idolo è Dante, meritamente dicono, e lo credo; ma quando si pensi agli amori ch'ottenne altra volta Petrarca, non parrà una stranezza il predire che i posteri riguardando alla presente mania di
Il signor A. W. Schlegel pensa che il nome d'istorico non si convenga propriamente parlando, che ai drammi fondati sulla istoria patria. Non conoscendo i motivi che lo hanno indotto a formare una tale sentenza, non posso essere contento di seguitarla, reputando bensì argomento di lode il preferire i patrii annali agli estranei, ma non cagione di alterare il vero distinguente carattere di un poema. Il
Or in Italia sì fatta pratica, benchè nuova, seguì la tendenza generale di ogni costume importato da' forestieri, e salì a un tratto all'eccesso. Le due tragedie di Manzoni occupano, a dir assai; cento pagine d'un volume che ne contiene quasi altre cinquecento, piene di teorie e contro-teorie su l'unità aristoteliche di tempo e di luogo e sì fatte quisquiglie, e molto più piene di lunghe notizie storiche, e dissertazioni assai più lunghe, e di disquisizioni spinose sovra alcuni punti della storia de' Longobardi in Italia, delle quali il poeta con poco più di fatica avrebbe potuto comporre un volume a parte e non far ad un tempo le parti irreconciliabili di poeta e di storico Le tragedie degli altri due scrittori, benchè corredate d'apparato prosaico certo pur anch'esse, ci hanno lasciati incerti se fossero opera di poeti, di critici letterari, – d'antiquari o di puntigliosi controversisti; e ci troviamo tuttavia nella stessa perplessità e, a dirne il vero, senza molta speranza d'uscirne!
Istorica dunque sia la tragedia del Carmagnola; e s'anche si vuole, giovi a illustrare lo stato d'Italia d'allora, i suoi principi, i caratteri de' condottieri stipendiari, e la politica tenebrosa del governo de' Veneziani. Il merito dunque e il demerito in questa parte del lavoro deve aggiudicarsi secondo che vi avrà preservato possibilmente la verità de' fatti e l'uso politico ch'egli ha ricavato dalle circostanze storiche dell'avvenimento ch'ei rappresenta. Il mezzo migliore a nostro credere sarebbe l'esaminare partitamente la tragedia e [la] narrazione che le corrisponde.... Ma tutti i professori di critica morti e viventi i quali hanno oggimai avvezzato il mondo ad esigere per diritto di prescrizione un transunto d'ogni specie di poema umano che a dirne il vero la poesia spogliata dello stile de' versi e del suo colore non è se non il teschio d'Elena dissepolto da Mercurio ne' dialoghi di Luciano in grazia degli sciocchi ammiratori d'ogni cosa che ignorano, e convincerli che veramente era bella. Fortunatamente l'illustre Tedesco ha adempito scrupolosamente ad ogni formalità dell'arte critica. Però noi traducendo il transunto ch'egli ne fa provvederemo a' bisogni de' nostri lettori e insieme daremo al critico illustre una prova che lontano dal valerci d'alcun stratagemma di guerra, intendiamo di permettergli, per quanto può conciliarsi con l'onor nostro e della verità, tutta la tattica dell'arte sua.
A poter conoscere quale uso l'autore ha fatto della storia, e quali circostanze ha voluto o dovuto sottrarvi ed aggiungervi, importa di raffrontare il transunto con la narrazione storica dell'avvenimento. Per ora accenneremo in via di assioma che a nostro parere non ha bisogno di prova, – ma che pur nondimeno a suo luogo ci studieremo di dimostrare – questo principio: che l'illusione senza la quale non esisterebbe arte veruna d'immaginazione e molto meno poesia drammatica, non acquista potere magico irresistibile se non allorchè la verità e la finzione, ritrovandosi faccia a faccia e in contatto non solo perdono [la] loro naturale tendenza a cozzare fra loro, ma s'aiutano scambievolmente a riunirsi e confondersi e parere una cosa sola. Bensì al critico, segnatamente d'ogni tragedia che intende d'illustrare la storia, tocca di separare la materia de'fatti dagli abbellimenti ideali, e osservare la proporzione e l'arte con cui sono stati frammisti e gli effetti che ne devono risultare. Anche di questo ufficio l'illustre Tedesco s'è sdebitato. Ma, avvezzo com'è a generalizzare ogni cosa, e professando di non vedere in poesia se non mondo morale, mondo politico e idee archetipo d'individui rappresentanti le qualità distinte di questo mondo, non guarda ogni uomo quale infatti è, composto di qualità varie e discordi. Però quand'anche il suo occhio d'aquila dall'alto sia (?) esattissimo quant'è onniveggente, la notizia storica ch'ei scrive dell'epoca del Carmagnola Eroe del Manzoni, non contenendo fatti positivi nè dettagli, non può molto servire all'analisi della materia di fatto e della poetica incorporate nella tragedia.
Più circostanziato non solo, ma più scrupoloso e imparziale nell'introduzione e disquisizione storica si mostra l'autore nella narrazione ch'ei premette ed eccone la sostanza.
Carmagnola, contadino piemontese, mentre ancor giovinetto pascolava gli armenti, fu ingaggiato da un soldato di quelle bande [che] in Italia combattevano [per] chiunque le pagava; la propensione di non riconoscere legge che la sua volontà, naturale ad ogni uomo e di non render conto delle sue azioni, si rinvigorirono in lui. Meritò di salire a' gradi più alti e divenne condottiero di bande, e per confessione fin anche del critico illustre tedesco «il était un de ces heros à gages qui aspire avec orgueil à être quelque chose par lui même, mais qui n'a rien de tout ce qu'il faudrait dans sa position pour parvenir à ses fins» (p. 130). Guerreggiò le guerriglie del duca di Milano in Lombardia e nel Piemonte e gli diede vinta e schiava la repubblica genovese. Meritò quindi l'onore di avere una moglie del sangue della casa regnante; finchè la sua superbia, le sue ricchezze e la sua celebrità militare lo resero intollerabile e sospetto a quel tiranno, egualmente crudele e più codardo di tutta quella sanguinaria razza Visconti; ma meno dissimulatore, perchè trattò il Carmagnola con aperto disprezzo. Il condottiero per vendicarsi, andò ad eccitare a dar guerra allo stato di Milano il principe suo naturale in Piemonte, che non gli diè retta. Andò a' Veneziani ch'erano appunto allora richiesti da' Fiorentini a far lega contro i Milanesi e il Visconti mandò un assassino a trucidare Carmagnola in Treviso.
Dall'allusione a queste ultime circostanze incomincia la tragedia; l'azione fino alla catastrofe percorre lo spazio di sette anni durante i quali la vita del Carmagnola è interamente connessa sì nella storia e sì nel dramma con la storia de' Veneziani che il poeta tocca appena di volo. Noi suppliremo forse con maggiore imparzialità – qualità di cui non ci crediamo [meno] dotati di lui, ma che un poeta non penda senz'intenzione a veder ogni cosa in favore del suo Eroe e in danno di coloro de' quali fu vittima, è un assunto che richiederebbe potere più assai dell'umano. Inoltre richiederebbesi un sovrumano potere, a fare che Carmagnola, senza alterare in tutto la storia, paresse un Eroe. Nè Shakespeare stesso, quando trattava tragedie tratte dalle cronache d'Inghilterra, riusciva a renderle interessanti e per l'importanza che gli spettatori naturalmente davano a tradizioni nazionali, per l'esattezza con che sapeva delineare i personaggi reali dei re passati, per la varietà d'incidenti e di caratteri ch'ei vi conduceva per la sua intuizione nell'umana natura e soprattutto per il fuoco luminoso, incitante e continuo che la sua immaginazione e il suo cuore inspiravano ne' suoi versi; e con tutto questo i[n] quelle rappresentazioni eragli necessario di spargere tinte ideali sovra i caratteri.
Ma nell'
I Veneziani, né pure per fare la conquista dell'universo avrebbero mai confidato le loro flotte e truppe nel Mediterraneo se non a' loro patrizi, e anche questi li invigilavano gelosamente. Ma Shakespeare fece che si pigliassero per capitano generale un moro, anzi come gli attori per tradizione perpetua lo rappresentano, un moro negro, anzi un Turco col suo turbante. Ma quanto il poeta aveva più genio, tanto meno guardava a sì fatte apparenze e formalità per penetrar nelle viscere profonde della umana natura, ed eccitarle a mostrarsi; con azione e reazione esplorò e in quali individui si palesano meglio, e in che modi agivano su la sua nazione, e i suoi tempi. Venezia per il popolo inglese era il paese delle maraviglie e de' romanzi, e pare che tanto quanto continui ad esserlo anche oggi. Ma allora anche i filosofi e uomini di stato che dall'Inghilterra andavano a osservare quella città, ritornavano a dire miracoli, e a profetare che quella repubblica non finirebbe che con la fine del mondo. Shakespeare pose dunque la scena in Venezia, ed ebbe gli spettatori già preparati alla meraviglia. Adottò un eroe mezzo barbaro perchè le virtù in sì fatto stato della società sono realmente schiette, ardite e generosissime, e le passioni profonde, impazientissime e veementi, mentre l'età e il candore e l'anima confidente dell'eroina veneziana che per ammogliarsi a un sì fatto individuo, sacrifica ogni cosa, e trova la morte, fanno col carattere del marito un contrasto che provoca ad ogni tratto la pietà ed il terrore – ma nessun sentimento d'odio per Otello, nè di disprezzo per Desdemona; e tutta l'avversione nostra concentrasi sopra il carattere di Jago al quale nel tempo stesso siamo costretti di dare una parte della nostra ammirazione per la lenta, profonda, efficacissima arte quasi più che umana di maturare e consumare il suo tradimento infernale.
Vero è che Shakespeare in quella tragedia e in altre emancipavasi dalla storia e appena se ne serviva a trovare soggetti e nomi; e se li trovava nelle novelle antiche o nelle ballate gli era tutt'uno. Il suo genio infondeva alle larve forme e vita e anima potentissima e tutta l'illusione della realtà, e se ben si considera il suo dramma della
I narratori contemporanei del fatto non potendo offerire al signor Manzoni «nessuna prova autentica su la reità o l'innocenza di Carmagnola – gli hanno lasciato quattro tradizioni diverse. La prima serbata da uno storico fiorentino – «ch'ei fu decapitato non perchè avesse tradito, ma per la sua superbia insultante verso i cittadini veneti e odiosa a tutti» – la seconda da una cronaca bolognese – «che non osando ritorgli il comando delle truppe lo condannarono come traditore, per levar di pericolo il loro stato che aveva posto nelle sue mani» – la terza da uno storico milanese – «che la vera ragione si fu l'avidità di confiscargli trecento mila ducati» – la quarta tramandata da' Veneziani a tutti i loro storici e seguita anche da un Milanese del secolo scorso – «ch'egli, fingendo di guerreggiare per la repubblica, s'intendeva col Duca di Milano a tradirli».
Il poeta esclude assolutamente le ultime due, e s'attiene alle prime, perchè la vendetta dell'amor proprio insultato e il timore gli sembrano le più probabili spiegazioni e possono essere. – Ma che Carmagnola non potesse tradire «perchè ciò era contrario all'indole sua e al suo interesse», è opinione gratuita, e facile a dimostrarsi per mal fondata; e forse Manzoni non l'avrebbe addottata se non gli fosse sembrata attissima a conferire su' Veneziani le colpe di servirsi delle più alte magistrature della Repubblica e del carnefice per vendicare insulti privati, e d'avere sacrificato un illustre guerriero non al pericolo probabile ed evidente del loro Stato, ma alla loro pusillanimità sospettosa.
Dove autentiche prove e unanimità di testimoni mancano, le circostanze reali intimamente connesse, o accessorie a un avvenimento spargono assai più lume che non le probabilità suggerite da congetture.
Lo sperare sì fatte circostanze dagli storici italiani, specialmente di quell'età quando ogni stato consideravasi composto d'una nazione diversa e gli scrittori adulavano ed irritavano le animosità nazionali, sarebbe aspettativa delusa. Fra' forestieri che trattavano e' fatti di quella Repubblica uno storico recente Daru, se lascia talvolta da desiderare alcune qualità necessarie alla perfetta esecuzione del suo lavoro, mostra fuor di ogni dubbio che quasi niun autore antico e nuovo che illuminasse gli annali di quella repubblica gli fu nascosto; ebbe sott'occhi i documenti ch'erano impenetrabili a tutti sino a' dì nostri negli archivi di Venezia, gli esamina con occhio sagace, guarda i secoli e le nazioni e le loro istituzioni con filosofica imparzialità, e con un merito non frequente agli storici, mentre pur abbandona il suo cuore propendere a compassione e clemenza per gl'individui che soffrono, non però lascia sfuggire nè declamazioni, nè insinuazioni maligne, nè le sue congetture acute intorno alle nazioni e alle loro leggi e a' loro governi. Di ciò ci somministra un saggio più facile ad ammirarsi che ad imitarsi appunto nella sua narrazione della guerra de' Veneziani guerreggiata da Carmagnola e della sua misera morte.
I Veneziani, rotte dopo lunghissima guerra le forze marittime de' Pisani, de' Siciliani e de' Genovesi e insignoritisi del commercio e della navigazione nel Mediterraneo, possedevano nel Levante molte colonie e cominciavano appena allora a stendere il loro dominio nel continente d'Italia. Serbando per privilegio dell'aristocrazia il comando delle flotte e delle truppe per le loro spedizioni oltre mare, s'appigliarono all'uso, comune allora, di non concedere il comando delle loro guerre in terraferma se non a un forestiero, tanto più quanto era principio invariabile della loro costituzione di evitare il più lontano pericolo che la loro aristocrazia cadesse sotto di un dittatore domestico. Preferivano condottieri di mestiere con meno timore, perch'erano uomini venali senza patria, nè principe, e di poca autorità al popolo veneziano. Carmagnola da principio corrispose alle loro speranze; ampliò il loro dominio di territori e città conquistati al Duca di Milano del quale ei volea vendicarsi; e ardeva della vendetta [del desiderio] di gloria e di comando assoluto. Sono le due passioni ch'egli esterna nella tragedia; e forse per non dividere nè gloria nè comando con altri non secondò mai le galere de' Veneziani sul Po, nè mostrava mai deferenza nè rispetto a' patrizi delegati.
Il Pisani, magistrato civile d'una città fortificata sul Po, assalito e investito da tutte parti con tutte le forze de' nemici, la difendeva ostinatamente domandando, invocando aiuto da Carmagnola: «Ce général lui repondit, qu'il était trop tard qu'il en avait du regret, qu'il n'ignorait pas l'importance de la place; mais qu'au reste quand il en serait temps trois jours lui suffiraient pour la recouvrer». A Pisani dunque non rimaneva se non di cedere; pur si difese per tre settimane ed ottenne capitolazione onorevole. Ma questa non fu discolpa al governo e all'aristocrazia. Condannò un illustre suo membro a perdere il diritto di esercitare magistratura veruna, e alla carcere per non aver potuto preservare alla repubblica una piazzaforte abbandonata dal capitano dell'esercito.
«Io racconto queste circostanze, dice M. Daru, per far conoscere la severità del governo veneziano»; e noi le citiamo a provare che se il signor Manzoni [non] avesse assolutamente soppressi i caratteri de' patrizi veneziani parrebbero tragici, non foss'altro per la fisonomia dignitosa, rigorosissima, inesorabile caratterizzata dalla riverenza che sentiamo all'idea della giustizia imparziale che sacrifica tutto alle sue leggi fatali.
Il Manzoni allude appena nella sua narrativa a un ammiraglio veneziano sconfitto sul Po, e gli basta di dire che sel meritava per la sua imprudenza; onde nella tragedia non ne fa cenno. Nè pare ch'abbia saputo mai che quest'ammiraglio comandando sul Po trentasette galere e assalito da una flotta del duca di Milano più numerosa, e su la quale s'imbarcavano le sue truppe di terra, domandò a Carmagnola alcune centinaia di soldati, a rinforzare il suo equipaggio, e non ottenne se non questa risposta –"Se la vostra milizia di mare è poca, la mia appena mi basta nel pericolo in cui mi trovo d'essere attaccato"».
Non però fu attaccato; nè si giovò del tempo a piantare su le rive alcun cannone che proteggesse le galere veneziane. Nessuno fu salvo; perirono tremila uomini; e l'ammiraglio, salvandosi con alcuni pochi patrizi in una barchetta, andarono a morire lontani dalla loro patria, certissimi che nè passati servigi, nè antichità d'illustre famiglia; nè moltitudine d'amici e parenti, nè giustificazione avrebbe ad essi giovato. Furono condannati a bando perpetuo e alla confisca de' beni e all'infamia; e d'allora in poi fu tenuta come inappellabile la sentenza di morte a qualunque patrizio, sotto qualunque circostanza cedesse una piazzaforte o la sua galera.
«Mais en condamnant les officers venitiens, (e qui traduciamo letteralmente Mr. Daru) la voix publique accusait Carmagnole, et ce n'était pas sans raison. Il joignait à une incontestable capacité, une très longue experience, et s'était laissé tromper trois fois par l'ennemi dans la même campagne. Les plus habiles commettent de fautes sans doute; dans la guerre le hasard est un élement nécessaire, et la fortune decide des reputations comme de la victoire. Malheureusement pour Carmagnole il ne fit rien, ou ne put rien faire pour réparer des disastres dont il avait été simple spectateur». La guerra continuò, ma sempre più sciagurata per i Veneziani.
Or qual principe mai, non che un'aristocrazia vigilante e inesorabile contro i suoi membri, non avrebbe diffidato d'un guerriero mercenario che quant'era più abile tanto pia riusciva a procacciarsi maggiori stipendi, vincendo per una parte e abbandonandola a un tratto per andar all'aiuto dell'altra? Aveva egli patria se non il campo, nè mestiere se non la guerra? L'idea archetipa di sì fatti guerrieri è mirabilmente descritta. Ma questo carattere, odioso com'è, non è dispregevole perchè non ha la tinta atroce della venalità che vende il proprio sangue e l'altrui, e lo stato e la salute di chi li pagava; e tradivano tutti perchè non
Pur questi versi non mostrano se non i lineamenti crudeli della fisonomia di que' condottieri. Essi cre[ava]no, attizzavano e mantenevano inestinguibile quella discordia civile di cui gli effetti – e quali siano in Italia, ognuno sel vede – prostrano finalmente le nazioni sotto il flagello de' tiranni domestici e la dittatura ancor peggiore di forti principi forestieri; nè Omero dimenticò di tramandarci de' versi per esecrare i guerrieri di questa specie –
E con tutto questo i condottieri italiani avvezzarono la nazione alla codardia, i principi a non più fidarsi delle armi de' loro sudditi, ad essere traditori e traditi, e a vedersi spogliati de' loro stati e trucidati da que' difensori medesimi ch'essi chiamavano a' loro stipendi; e che spesso di erranti soldati di ventura diventavano despoti e usurpatori delle città. L'addurne testimonianze di storici sarebbe superfluo, quando gli scrittori tutti, e Machiavelli che li aborriva e disprezzava ad un tempo se ne duole acerbamente, e ascrive ad essi la sciagura che l'Italia non abbia mai potuto riunirsi in una sola nazione per mezzo delle conquiste di uno stato italiano che avesse saputo farsi più forte degli altri usando della disciplina militare, e del coraggio de' suoi cittadini, e delle leggi del loro governo. Infatti per questi soli mezzi i Veneziani avevano finito a diventare signori della navigazione e del commercio: ma se le loro guerre marittime fossero state lasciate in mano de' condottieri mercenari, Venezia non avrebbe posseduto nè una colonia, nè un naviglio da guerra, e avrebbe continuato ad essere com'era nei primi giorni della sua fondazione, un abituro di pescatori. Machiavelli ride sovente di città e castelli presi in apparenza da' condottieri pagati da uno stato, ma in sostanza rimasti a beneplacito de' condottieri dello stato nemico, affinchè le piazze prese e riprese non lasciassero mai finire la guerra. Racconta spesso di bande che fingevano di combattere accanitamente, ma le battaglie finivano con tre feriti, con altrettanti morti o ch'erano fatti credere tali, e con molte centinaia di prigionieri i quali subito erano lasciati in libertà, senz'armi a dir vero; ma servivano di bottino al vincitore, e i soldati non penavano a provvedersi d'altr'armi o per fare l'unico mestiere da cui dipendeva la loro vita, o per fuggire, come li scusa il Sr. Manzoni, la vergogna di sentirsi gridare dai popoli –
Però nella guerra de' Veneziani condotta dal Carmagnola un'imboscata gli pose in mano da otto mila prigionieri; furono disarmati, e lasciati andare a cercarsi fortuna; e a' commissari veneti che se ne dolsero, fu risposto che non ve ne rimanevano più che quattrocento, – e anche questi, aggiunse il Carmagnola, «io ordino che siano secondo la legge solita, rilasciati». Istos quoque jubeo solita lege dimitti
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Il Sr. Manzoni adempie la parte di storico citando fra le autorità della sua narrazione le parole imperiose de' soldati; nella, tragedia per altro gli fa dire più sentimentalmente a' commissari veneziani – Voi sapete che questo è un uso della guerra, il perdonare quando si vince è pur dolce! E ne'cuori che palpitano sotto il ferro l'ira si cangia presto in amistà (qui temiamo v'è un po' del concetto).
Inoltre rimostra «che la ricompensa più cara e più dolce a' suoi soldati è di potere esercitare la generosità; ch'essi oggi sono generosi perchè ieri furono prodi» – e conclude – non invidiate sì nobile soddisfazione a quelli che avevano messo a pericolo [la vita] per la vostra repubblica.
Certo l'Eroe qui parla da stolto; e infatti udremo fra non molto ch'egli confessa che andando a stipendi di Venezia egli aveva operato da stolto; e il suo poeta, volere o non volere dovrà confessare ch'ei lo fa anche riconoscere per un di quegli ipocriti che sotto parole sentimentali promuovono i loro bassi interessi; infatti stando alle parole della narrazione storica dell'autore, i condottieri e i soldati rilasciavano liberi i prigioni per patto reciproco, «perchè quella sorte di milizia aveva timore che le guerre fossero presto finite».
Sta bene per quei manigoldi, ma ogni repubblica o principe che ammettesse nelle sue guerre sì fatto uso, e lo credesse sentimento di generosità, darebbe diritto al suo popolo di mandarli ad esser giudicati da una commissione
Un'altra giustificazione addotta dall'Eroe e dagli amici suoi nella tragedia, e dall'autore più gravemente nella notizia storica a si è che quasi tutti i prigionieri furono rilasciati non da Carmagnola, ma da' suoi soldati. Or, senza dire ch'egli medesimo rilasciò anche que' quattrocento che gli rimanevano, un generale che si giustifica colla sua impotenza di impedire che le sue truppe facciano a loro modo, o non aspettino gli ordini suoi, non è eroe da storia, e molto men da tragedia.
Ma per quanto uso o legge si fosse o com'era più veramente tacito patto fra' condottieri di rilasciare libere le loro bande come istrumenti necessari del loro comune mestiero, non era legge riconosciuta da' Veneziani, nè uso mai praticato. In tutte le loro spedizioni oltremare (e in quell'epoca più che mai, perchè cominciavano a essere minacciati da' Turchi) combattevano sempre con le armi loro nazionali guidate da' loro patrizi, e nonchè rilasciare prigionieri o riceverli, quelle battaglie erano continuate non solamente sino alla vittoria, ma sino alla morte. Inoltre il loro sospetto che Carmagnola li tradisse dovea acquistar molto vigor di certezza da ch'egli pure in quella campagna si lasciò cogliere in un'imboscata, e i Milanesi gli pigliarono da cinquecento in seicento uomini di cavalleria, e non v'è ricordo nè indizio che tornassero liberi a' Veneziani.
Tale è l'uso della storia fatto dal poeta per esaltare il carattere del suo eroe non aggiungendovi tratti ideali, bensì attenuando le sue volgari e odiose fattezze, e sottraendo quel tanto di grandezza reale e di dignità che la storia assegna a' Veneziani di quell'epoca. Quindi la verità e la finzione nonchè immedesimarsi fra loro, si danneggiano reciprocamente, e nel tempo stesso non vi si trova alcun elemento di quell'ideale che dà lume, foco e vita e apparenze tangibili all'illusione. Tutti i meriti che in questo e negli altri requisiti d'ogni tragedia ritrovano i critici, giornalisti, e lettori, sono stati diffusi sovra questo dramma dalla immaginazione magica del critico illustro Tedesco e dalla illusione che i suoi oracoli in questioni letterarie producono meritamente in Europa.
Resta a osservare il potere dell'immaginazione, del cuore, e dell'arte dell'autore nella catastrofe alla quale i poeti riservano gli sforzi maggiori delle lor facoltà a corrispondere all'aspettativa ansiosa de' loro spettatori e lettori.
Shakespeare se avesse trovato nelle croniche o nelle novelle antiche quella risposta del Doge: – Abbiamo infatti vegliato e anche parlato spesso a voi, avrebbe veduto in un subito che il solo copiarla senza alterarci sillaba gli bastava [a] svelare che mentre la dissimulazione imposta dalla ragione di stato era portata all'estremo, pur l'umanità che parlava nel cuore del Doge voleva accennare alla vittima confidente un avviso del suo sacrificio imminente; e che, non osando per il pericolo in cui il Doge, ministro principale di quel sacrificio, si sarebbe trovato, le stesse parole che tendevano ad illuminare, acciecano e rendono la vittima più confidente.
Ma Shakespeare le avrebbe copiate; sarebbe stato plagiario? e che gl'importava? Copiò discorsi a pagine intere, e senza darsi altra cura che metterli in versi, gli attribuì a' personaggi. Ma li disseppelliva senz'altro dalla oscurità, li riscaldava, li illuminava, e gli accompagnava di accessori che lasciavano penetrare in ogni parola ne' movimenti del cuore umano. Per i critici l'accusa e la convinzione e la sentenza di plagio è inappellabile, e non par loro vero di poterla ripetere ad ogni poco, e d'applicarla indistintamente. Ma chi al solo toccare un pezzo di ferro nascosto e ruggine ne fa d'improvviso una spada acutissima e splendente, non è plagiario, ma esercita anche in questo il potere magico istantaneo del genio.
Ma dal trasunto di Goethe riportato dianzi appare che niuna delle particolarità narrate nella storia sono riportate nè ricordate nell'ultimo atto della tragedia. E leggendolo attentamente avvertiamo soltanto che l'Eroe come fu nel palazzo, si trova dinanzi al Consiglio de' Dieci dove, senza assegnarli alcuna colpa speciale, gli vien intimato dal Doge ch'egli è traditore. Ei, senza giustificarsi, risponde alteramente fidando nella coscienza dell'onor suo e rimproverando i suoi giudici di codarda perfidia; ed essi, senza troppo offendersene, lo fanno condurre al tribunale secreto che fuor d'ogni dubbio per gli spettatori, e per que' molti lettori non versati nella storia, rimane severissimo, impenetrabile, e inimmaginabile. Pare che il poeta accennandolo, volesse lasciare intendere ch'ei subì la tortura; ma di che foss'egli interrogato, e che rispondesse, e cosa ne fosse seguito, non v'è nè parola né indizio. Non però intendiamo che tragedia veruna rappresenti mai in azione sì fatta fredda carnificina, nè se fossero narrate dagl'interlocutori come circostanze dell'azione accadute fuori della scena ci parrebbero meno abbominevoli e tendenti solo a inorridire e inferocire gli spettatori. Al popolo che ha bisogno di eccitamento sì fatto, il manigoldo e i delinquenti servono di attori e spettacolo nelle pubbliche esecuzioni e sul palco. Ma lo scrittore drammatico che non sa trovare espedienti, nè tratti sicuri profondi e rapidissimi per dare un'idea d'usi, tempi ed uomini feroci, ed eccitare più che condurre le fantasie degli spettatori e lettori a figurarsi da sè le angoscie dell'eroe che soffre, e il loro cuore a compassione per lui anche se fosse colpevole, e a incertezza affannosa a sapere con quanta fortezza e coraggio egli soffre, certo sì fatto scrittore non conosce o non vuole penetrare nel cuore umano, e la poesia tragica non è la sua vocazione.
Vero è che qui la storia si tace; ma appunto per questo silenzio lascia libero il campo al poeta perchè la finzione ideale non teme documenti nè testimoni nè tradizioni che la convincano, può arditamente riunirsi alla verità reale e produrre l'illusione drammatica che è più difficile ad ottenersi in quelle tragedie le quali professano di illustrare la storia.
Se non che [il poeta] in quanto a' Veneziani non si curò di storia o di tempi nè pure quando, senza nuocere in nulla al carattere che studiavasi d'esaltare di Carmagnola, avrebbero diffuso sul suo lavoro varietà e verità insieme, e favorita l'illusione. Per quel tribunale secreto ch'ei nomina appena di volo, ei di certo intende il tribunale degl'inquisitori di stato; ma a
Questo deviamento dalla storia, lieve come pare, quand'anche non fosse scorto da niuno, produce nella tragedia effetti bastantemente tragici. – Il generale privato delle sue guardie da che ad ogni modo volea venissero, non aveva egli la sua spada per perire vendicandosi non foss'altro d'uno o due de' suoi mortali nemici che gli intimavano appunto allora la morte o l'infamia? O dopo avere scoperta in essi la loro determinazione, era egli sì smemorato da non sapere che non avrebbero lasciato le sue guardie a' suoi comandi alla porta della sala del Consiglio de' Dieci? Il Doge dunque glielo ricorda gravemente «Sono lungi di qui» e questi d'ora innanzi saranno le vostre guardie:
Una legge di poco anteriore a quegli anni proibiva che al Doge si desse altro titolo fuorchè
Le grida de' senatori impazienti nella tragedia
Certo la rappresentazione di sì fatta assemblea sarebbe insieme istruttiva e poetica sopra il teatro, perché è vera dignità e singolarissima, e malgrado la sua antichità riesce nuova anche agli uomini più istruiti nella storia de' Veneziani, da pochissimi in fuori che ne hanno studiato la severa organizzazione. Ma la costituzione di quel governo e tutta la storia d'Italia, e a dir vero di quell'epoca in Europa sono snaturate da certe teorie tendenti [alla] politica sentimentale ignota a que' giorni e nè ideate pure da' Veneziani. Il Doge propone che s'intraprenda la guerra in alleanza co' Fiorentini contro il duca di Milano perchè è un tiranno, e gli stati liberi sono fratelli.
[I] Veneziani per computo di ragione di stato anzichè temperare le animosità provinciali le irritavano insinuando la diffidenza e le recriminazioni reciproche; onde dal Boccacci in poi che gl'infamò come dislealissimi fra' mortali, tutti gli scrittori fiorentini assalirono i Veneziani; nè il Machiavelli medesimo seppe guardarsene. Finalmente dalla prima ora della fondazione di Venezia sino al giorno che cadde pareva che ove trattavasi di politica la natura stessa avesse piantato un'invincibile (?) ripugnanza e avversione ne' Veneziani ad ogni istituzione e paese qualunque si fosse che non fosse loro propria; e come gl'Israeliti credevansi il popolo eletto da Dio. Esiste ancora non finto da storici eloquenti, ma preservato nelle cronache de' contemporanei che l'udirono il discorso del Doge predecessore [di quello] sotto il quale perì Carmagnola; e allude appunto alla guerra contro a' Milanesi che fu poi confidata a questo generale.
La libertà di Firenze consisteva allora nella dittatura apparentemente disarmata della casa de' Medici che malgrado l'opposizione dell'aristocrazia predominò per mezzo del popolo; e benchè Cosimo chiamato Padre della Patria fosse esiliato e rifuggisse a Venezia, tornò e verificò la sentenza non mai fallita dopo il regno di Tiberio:
Le stragi che Cosimo fece furono poi giustificate dal suo dominio pacifico, e più assai dal potere che tramandò alla sua famiglia. Or l'odio a sì fatta preminenza d'un solo era appunto uno de' principj nativi ed ingeniti all'aristocrazia veneziana.
Dell'
Le tragedie di
con diligenza minutissima d'antiquario, scrisse un racconto sufficientemente circostanziato e apparentemente imparziale del fatto. Ma è oltre l'umano potere l'impresa di non raccontare in guisa da favorire il suo eroe, nè umano [potere] poteva valere che, senza tradire al tutto la storia, che il suo Eroe, benchè tentasse di dissimularlo, che il suo Eroe sentisse anch'egli che Carmagnola per sè non aveva i caratteristici indispensabili alla forza, sublimità, tumulto delle passioni nella tragedia il contrasto sta necessariamente fra la ostinazione di Carmagnola di non obbedire chi lo pagava, – e la gelosia de' patrizi veneziani che pagandolo e non vedendosi obbediti sospettavano d'essere traditi. Goethe, benchè in altre parole, fa la medesima osservazione (p. [? ]). L'altra naturale relazione o sentimento d'umanità e devozione comune di patria o participazione di gloria o di dominio nella vittoria non esisteva fra le due parti. Nè pure l'ammirazione al suo valore militare gli procaccia il nostro interesse o può indurci a credere ch'ei fosse veramente innocente del tradimento venale che gl'imputavano i Veneziani. Vince una battaglia, e ne perde poi tre. Contrasto di forti passioni nell'anima (A, c. 278, numerata11) sua, nè alta ambizione politica o scopo deciso non si veggono mai chiaramente e appena traspirano appena (
necessaires pour jouer en perfection ces etres poetiques il serait impossible de ne pas les prendre pour individus reels». – Quest'ultima sentenza l'intendiamo. Garrick farebbe parere carattere tragico insieme e reale fin anche il buon Carmagnola, ma Amleto, Othelo Lady Macbeth, – per tacere di più altri sì di Shakespeare e sì di altri grandi poeti, per parere eminentemente tragici non hanno bisogno di attore veruno – (A, c. 281, numerata 38).
Il più delle espressioni del critico illustre forse a noi paiono incoerenti e contradditori[e], e sopratutto inintelligibili perchè la sua mente guarda dall'alto e al di là delle nostre idee, alle quali, quando anche potessero, noi non vorremmo permettere mai che in sì fatte questioni salissero troppo oltre la terra. A noi non pare che il critico illustre parli nè da uomo, nè ad uomini, nè di umano lavoro quando pronunzia che la tragedia del Carmagnola presenta il miracolo d'una produzione «nella quale tutto è eccellente, eminente», «tutto è perfettamente giustificato e invulnerabile da ogni obbiezione» – «tutto è cospirante a formare compiutamente un gran quadro dell'umana natura» (A, c. 281
Quanto a' caratteri il Sr. Goethe ci assicura «che il doge figura in tutta la sua purità la suprema ragione de lo Stato, e che fa l'ufficio che nella bilancia fa la linguetta che osserva l'equilibrio de' due bacini ch'ella domina; specie di semidio previdente senza diffidenza, e riflettente senz'ansietà, e pendente verso il partito della benevolenza ogni qual volta si tratta di pigliare partito» (p. 1). Il doge realmente era quel Foscari soggetto d'una tragedia di Lord Byron, – e che misera specie di semideo (
Un'altra deviazione materiale dalla storia e che non ammette lode nè biasimo perchè è comandata dalla necessità, è l'ammettere nella prigione di Stato del Consiglio de' Dieci alcun individuo a vedere i condannati; e che la moglie e la figlia del Carmagnola non poteva[no] essere privilegiate (?) a vederlo n'è prova la circostanza che affinch'ei non divolgasse cosa veruna fu mandato al patibolo con le sbarre alla bocca. Pur quella ultima scena del dramma, è l'unica in cui appaiano donne, e anche la sola che animi d'alcuna pietà la tragedia. Il dolore della Madre e della Figlia, ha più tenerezza che disperazione, ei si mostra preparato alla morte da Cristiano, il che s'addatta esattamente a' suoi tempi ed a quasi tutti gli uomini guerrieri e ladroni che fanno gli ultimi passi della loro vita verso il patibolo
dato il tristo esempio di struggere i loro talenti i loro animi (?), e la dignità delle loro anime per assumere la vena pedantesca di critici? Essi incoraggiavano i sistemi de' ciarlatani e impostori letterari a imitarle e peggiorarle e infamare e rendere venale e indizio di malignità e d'ironia l'arte già poco utile per se stessa del criticismo. Così si propaga di giorno in giorno una mala consuetudine (?) de' lettori educati a non lasciare che il loro libero arbitrio sia diretto dalle loro proprie facoltà intellettuali e da' non fallibili sentimenti del cuore, onde pochi essendo oggimai i nuovi libri, o godono delle arti d'immaginazione se non se – con gli occhi de' direttori del gusto da' quali per altro non imparano se non se il sentenziare positivo, il gergo ciarlatanesco e la vanità di ciarlare di cose che appena conoscono (A, c. 272, non numerata).
Adunque noi rimettiamo come verità